Cultura

La Napoli di Antonio Genovesi

Speciale: lezioni di economia civile. Quarta puntata

di Stefano Zamagni e Luigino Bruni

Introduzione
Nella Napoli del 1700, sotto il regno illuminato di Carlo III di Borbone, il pensiero vive una stagione felice per senso civile. Il cinismo che aveva dominato il secolo precedente con Hobbes e Mandeville, viene smentito a livello teoretico e pratico. I rapporti sociali tornano a essere caricati di valore straordinariamente positivo. Ogni attività umana viene concepita non per la ricaduta sul singolo, ma sulla collettività. Merito soprattutto di un grande filosofo, Antonio Genovesi, vero maestro dal pensiero umano. Iniziamo a conoscerlo
Quarta lezione.La fede pubblica il tesoro più grande che ci sia
Napoli non è una città come le altre per la storia dell?economia civile: in quella città, Antonio Genovesi nel 1754 iniziò la sua attività di docente di economia dalla prima cattedra di economia della storia, lezioni che volle chiamare, non a caso, Lezioni di economia civile, in modo da ricollegare direttamente la sua concezione dell?economia e della società a quella tipica dell?umanesimo civile. Antonio Genovesi, salernitano, visse in un periodo particolarmente felice: dopo decenni molto difficili, con Carlo III di Borbone Napoli stava sperimentando riforme sociali e rinascita culturale. Ma la sua domanda di fondo, che ritroviamo nei suoi primissimi scritti di economia, era cercare di capire perché il Regno di Napoli non riusciva a progredire dal punto di vista economico: perché, diceva, questo regno che è popolato da gente intelligente, che ha un clima ideale, che ha facilità di commercio marittimo, che ora ha anche buoni governanti, per quali ragioni non riesce a tenere il passo con le altre nazioni d?Europa? Dopo qualche anno pubblica le sue Lezioni di economia civile (1765) e trova finalmente la risposta a quella domanda: a Napoli ciò che manca è la ?fede pubblica?, la fiducia diffusa tra la gente. C?è molta fiducia privata e onore (ci si fida del familiare, dell?amico, o del ?signorotto?), ma non sono sviluppate le virtù civili, che ci portano a fidarci degli altri cittadini anche quando non sono nostri amici; quella fede pubblica che sola consente al commercio di attecchire, e ai mercati di svilupparsi, e la cui mancanza blocca invece tutti i traffici e le attività economiche, cosa che sanno benissimo coloro che oggi studiano l?importanza delle virtù civili (il cosiddetto ?social capital?) nei Paesi in via di sviluppo. Per Genovesi, quindi, la pre-condizione anche dello sviluppo economico è l?esistenza della fede pubblica: la fertilità del suolo, le macchine, le miniere sono cose importanti; ma «niente è più necessario a una grande e pronta circolazione, quanto la fede pubblica», poiché «niente è più vero: la prima molla motrice delle arti, dell?opulenza, delle felicità di ogni nazione, è il buon costume e la virtù». IL RUOLO PACIFICO DEL COMMERCIO Per capire quindi la sua complessa concezione del ruolo del mercato, degli interessi privati e del bene comune (il tema che, come abbiamo visto, era centrale in Mandeville e che sarà centrale in Smith e nella Scuola scozzese) dobbiamo necessariamente partire dalla priorità assoluta che Genovesi assegna alle virtù civili e alla fede pubblica. Per l?intera Scuola napoletana (pensiamo a Doria, Galiani, Broggia, Filangeri o Pagano), il commercio è considerato un fattore civilizzante. In Genovesi questo era così chiaro che lo ha voluto scrivere anche nel titolo delle sue Lezioni, che nella dicitura completa recita Lezioni di commercio o sia di economia civile, dove quell??ossia? sottolinea proprio che il commerciare è attività civile. Il commercio poi è considerato come il modo pacifico di ottenere qualcosa da uno straniero: se voglio qualcosa da chi non me lo dona posso comprarlo o rubarlo. Per questo motivo uno dei frutti più belli del commercio «è di portare le nazioni trafficanti alla pace. (?) La guerra e il commercio sono così opposti come il moto e la quiete», una tesi che di questi tempi conserva tutta la sua complessa attualità. Anche se in esplicita polemica con Mandeville nega «che vi possano essere de? vizi utili alla società civile», è , d?altro canto, così convinto che il commerciare sia qualcosa di buono per la società che nelle sue Lezioni troviamo affermazioni perfettamente in linea con la posizione di quegli autori che avevano intuito il meccanismo delle conseguenze non volute delle azioni intenzionali. Il meccanismo, oggi noto come eterogenesi dei fini, indica che vi sono situazioni nelle quali può accadere che individui, ciascuno dei quali agisce per raggiungere fini propri, interagendo fra loro, vanno a generare conseguenze (benefiche o meno, a seconda dei casi) che nessuno aveva previsto e che pertanto non facevano parte delle intenzioni di alcuno. A Genovesi però sta a cuore affermare ben altro. Il suo punto di partenza è il filosofo Gianbattista Vico, il quale nella sua Scienza Nuova (1725), aveva intuito che la legislazione civile, diversamente dalla metafisica che considera l?uomo «quale deve essere», deve invece considerare «l?uomo qual è, per farne buon usi all?umana società», e far sì che nella vita civile la ferocia si converta nella fortezza, l?avarizia nella ricchezza nazionale e l?ambizione nell?arte del buongoverno, concorrendo tutte queste passioni alla «civile felicità» (p. 81). Dal discorso di Vico si coglie chiaramente che l?alchimia che trasforma gli interessi e le passioni in bene comune non è automatica, ma per funzionare bene ha bisogno delle virtù civili: gli interessi privati sono guidati dalla mano della provvidenza verso il bene comune solo in presenza di civili istituzioni, di cittadini che vivono le virtù civili, di leggi che regolano le dinamiche spontanee degli interessi privati, e di magistrati civili che le facciano rispettare. Genovesi si muove esattamente su questa stessa linea: «Donde s?intende che la virtù non è, per ridirlo qui di nuovo, una invenzione dei filosofi, sparsa e fissa nell?animo con l?educazione e con le leggi, come li pretende l?autore della Favola delle api (Mandeville); ma è una conseguenza della natura del mondo e dell?uomo» (Lezioni, II, p. 142). LA RECIPROCITÀ,CIÒ CHE FA DI UN UOMO UNA PERSONA Da qui discende naturalmente che per Genovesi l?uomo di scienza, lo scienziato civile, è qualcuno che sa cogliere l?importanza delle virtù e della fede pubblica per il bene vivere sociale, e che lo insegna ai suoi concittadini. Per questo motivo ci ricorda che la scienza non va studiata per pura erudizione o contemplazione ma è un «mezzo di incivilimento», uno strumento per migliorare il benessere e la felicità del regno. Fu questa passione civile che lo spinse a introdurre la lingua italiana nelle scuole, e ad essere tra i primi a scrivere trattati di metafisica e di logica in italiano (invece che in latino): «Voi vedete in Italia un?infinità di università piene di cattedratici, di leggi, di canoni, di teologia la cui moltitudine, anzi di rilevare, imbroglia e opprime le cose umane». Non è però possibile comprendere pienamente la teoria economica e sociale di Genovesi, la sua enfasi sulla fede pubblica e sulle virtù civili, senza guardare da vicino la sua visione della persona, la sua antropologia, e cioè la sua ferma convinzione che la società nasca, come già diceva Vico, dalla «civil natura dell?uomo». Se uno legge le opere di Genovesi (ma anche di Vico o di Pagano) si accorge subito che i rapporti con gli altri non sono considerati principalmente come dei mezzi attraverso cui ottenere interessi personali («Le amicizie sono buone, perché sono utili», diceva invece Hobbes con il suo lucido cinismo). La vita in comune nasce invece dalla reciprocità, che per Genovesi è ciò che fa diventare l?essere umano una persona. A lui non basta quindi la socialità («anche gli animali sono socievoli», ci ricorda), gli serve la reciprocità, che fonda anche la natura del mercato che è visto come il luogo attraverso il quale nelle grandi società (dove si può fare poco affidamento sul puro dono) possiamo «assisterci l?un l?altro, scambiando il superfluo con il necessario». Nel teorizzare la capacità di reciprocità degli esseri umani come la cifra che fa l?uomo un animale socievole diverso da tutti gli altri, Genovesi prefigura dinamiche che oggi alimentano il dibattito teorico contemporaneo. Infatti, il progetto del pensiero classico e dell?umanesimo di fondare filosoficamente la ?natura civile? della persona era riuscito solo in parte: la persona umana, dal punto di vista filosofico, restava definito più dall?individualità che dalla relazione con l?altro. IL FILOSOFO PIÙ CRISTIANO DEL 700 Ma se la relazione interumana non è un elemento costitutivo della persona, diventa allora possibile elaborare teorie sociali sostanzialmente individualiste, come in Hobbes o Mandeville, che, si ricorderà, spiegano la vita in comune come risultato della dinamica di individui asociali, impauriti ed egoisti. Genovesi, da filosofo e studioso di fatti sociali, conosceva troppo bene il pensiero di quegli autori per non essere persuaso che soltanto partendo da una concezione della persona vista fin dall?inizio relazione-con-gli-altri è possibile scrivere una teoria sociale che tenga assieme l?io con il tu, salvando, come elementi entrambi coessenziali, sia l?individualità sia la alterità. Fu questo ciò che lui tentò di realizzare, puntando sulla reciprocità, che scatta per quella dinamica trinitaria (va ricordato che Genovesi è stato forse il più cristiano tra i filosofi italiani del Settecento) che è impressa nell?essere di ogni uomo, e che ci porta a essere «come per simpatia musica, da piacere ed interna soddisfazione, come veggiamo un altro uomo ? essendo le nostre nature lavorate, quanto sembra, ad un medesimo regolo, e stampate sulla medesima stampa, non è possibile che nell?incontro l?aria dell?uno non commuova simpaticamente l?altro». E questo perché «il gran fondo d?ogni uomo è l?amore di coloro con cui vive. Or quest?amore è appunto figlio della virtù». Ma dove meglio spicca la sua visione della persona come homo reciprocans è il suo discorso sulla felicità: «È legge dell?universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri»(Autobiografia e Lettere, p. 449). Ma della felicità, e della ?pubblica felicità? dovremo parlare ancora, dato il suo ruolo centrale per l?economia civile.


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