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Padre Camillo, un poeta della prossimità

Grandi anime. L'addio al "prete scomodo"

di Aldo Bonomi

Se n’è andato a 92 anni. Era stato il protagonista, con Davide Turoldo, dell’esperienza della Corsia dei Servi
a Milano. Un cristiano che amava la contaminazione
Camillo De Piaz è morto. La morte di un amico, di un pezzo di romanzo di formazione di solito lascia un discorso interrotto, un urlo in gola. Non è così per padre Camillo. Frate servita che molti ricorderanno, con il suo passo indietro da suggeritore, accanto alla figura imponente del suo sodale Davide Turoldo. L’esercizio della parola, dei sussurri in orizzontale nei micro saperi del quotidiano, nelle relazioni di prossimità esercitate e cercate da Camillo sino all’ultimo, nel dono dei suoi 92 anni, sfumano il senso del non detto che la morte lascia.
Ne aveva molto da raccontare. Lui, Premio Curiel per la resistenza. Dal crogiuolo di quegli incontri milanesi durante la resistenza tra cattolici e comunisti. Lui, frate cattocomunista con cui lo hanno sempre segnato, ne dava interpretazioni sottili del come l’incontro tra le due culture del 900 cambiava e mutava la sua Milano. Ne faceva testimonianza con gli incontri tra la Corsia dei Servi, l’associazione culturale da lui animata, che si incontrava con la Casa della Cultura allora diretta da Rossana Rossanda. In quelle sperimentazioni che avrebbero portato poi ad elaborazioni politiche alte da compromesso storico tra Moro e Berlinguer.
Ma ti raccontava anche di quel giorno che in piazzale Loreto i corpi appesi di Mussolini e la Petacci gli avevano squarciato dentro un senso di angoscia da “la pietà l’è morta”. Per cui era scappato rifugiandosi nella sua comunità originaria. La sua Tirano in Valtellina dove è morto. Si era ritirato lì nel convento di fronte alla Basilica dopo gli anni 50 quando lui e Turoldo erano stati allontanati da Milano come frati scomodi. Vivendo da pendolare tra il locale, un borgo alpino di confine, e il globale, si direbbe oggi, di una Milano plasmata e cambiata dal boom economico e dalla rinascita post bellica. Con cui aveva mantenuto reti lunghe ed alte di frequentazione. Con quella borghesia ambrosiana dei Pirelli, più con Giovanni che con Leopoldo, dei Cederna, l’amica Camilla e il Vittorini del Politecnico. Borghesia ed intellighentia che faceva fabbriche e si poneva l’interrogativo forte dell’intreccio tra economia, cultura e coesione sociale.
A noi, ragazzotti sessantottini che scrivevamo sui muri del palazzo valtellinese dei Cederna «borghese illuminato non inganni il proletariato», spiegava paziente il ruolo delle élite e di una borghesia interrogata dal motto weberiano «la proprietà obbliga». Obbligo per quelli che stanno in basso, nella società. Gli ultimi a cui dava voce e visibilità alla Corsia dei Servi ove si raccontava il venire avanti di una città che accoglieva i tanti che facevano esodo da Sud a Nord al lavoro ne Il fabbricone raccontato da Testori e dalla poesia disperante dell’amica Alda Merini. Che se ne è andata poco prima dell’amico Camillo. Il suo racconto e quello della poetessa dei Navigli ci mancheranno.
Camillo aveva attenzione anche ai dannati della terra. Attraverso le reti della teologia della liberazione faceva racconto dei territori lontani, l’Algeria, l’America Latina… La Corsia non era solo racconto degli ultimi e dei dannati della terra, era snodo di quel cattolicesimo post conciliare animato da Camillo e Mario Cuminetti a Milano, e da Davide Turoldo, emblematicamente collocato a Sotto il Monte, la piccola Gerusalemme di Giovanni XXIII. Dialogando tenacemente con il farsi e il mutare della società. Con il suo sviluppo. Discutendone con Giuseppe De Rita, con cui lo univa anche il ricordare entrambi Pasquale Saraceno e Ceriani Sebregondi. Osservando i suoi conflitti seguendo l’evoluzione del sindacalismo di Sandro Antoniazzi e di Bruno Manghi. Sino al mettersi in mezzo, all’estremo limite degli anni di piombo con le sue visite in carcere ai detenuti della lotta armata. Dialogando con Cecco Bellosi. Dialogo continuato sino ad avere in comune nel Convento di Tirano la comunità Il Gabbiano dove Cecco attualmente opera.
Per dirla con il cardinal Martini, quella di padre Camillo è una storia di vita da cristianesimo di minoranza che si fa nella relazione e nella contaminazione convinto, come è sempre stato e come ci insegnava citando Levinàs che «l’identità non sta nel soggetto ma nella relazione». È la sintesi del suo romanzo di formazione che molti hanno letto e vissuto con lui. Rimane un Camillo privato, intimo. Quello che scendendo da Carona, il piccolo comune ove aveva avuto origine la sua famiglia, ti stupiva con il suo poetico entusiasmo per i tronchi delle betulle illuminate nella notte dai fari dell’automobile. Non per nulla era amico e gli piaceva scoprire poeti, pittori e scrittori. Da farne un’altra storia. Mi basta ricordarlo e raccontarlo come un frate poeta che ha attraversato e ci ha raccontato il 900.

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