Welfare

Filastrocca araba per mio figlio

Confessioni di una mamma

di Redazione

Lui non si meraviglia
di sentirmi parlare in modo diverso dal papà,
che è italiano.
Anzi, nei suoi borboglii nasce qualche volta un
suono decisamente arabo tra le varie vocali latine…di Ouejdane Mejri
Essendo nata nei primi giorni dell’anno, colgo spesso l’occasione del mio compleanno per fare il punto della situazione e capire, ora che un anno nuovo si coniuga con una nuova cifra nella mia età, quali progetti ho realizzato e quanti invece ho tralasciato. Nei numeri passati di Yalla Italia ho raccontato le mie speranze, i miei sogni ed ho espresso le mie paure. Rileggendo alcune mie riflessioni pubblicate mesi fa mi rendo conto che sono stati esauditi tanti di quei sogni che a scriverli oggi sarebbero probabilmente sembrati edulcorati. Perché la realtà supera la finzione. Perché siamo capaci di fare molto di più di ciò che ci si aspetta di fare. Abbiamo festeggiato il Natale qualche giorno dopo l’Aid El Kebir (festa principale musulmana) in una famiglia felicemente riunita e non divisa dalle differenze di religione in essa presenti. Oggi canto filastrocche in arabo a mio figlio che non si meraviglia di sentire la mamma parlare una lingua diversa di quella del papà, anzi nei suoi borboglii nasce qualche volta un suono decisamente arabo tra le varie vocali latine. Ribadisco anche quello che affermavo nel numero dei matrimoni misti, che spesso si trova l’anima gemella a migliaia di chilometri dal luogo in cui uno nasce, appartenente a un’altra cultura o religione, che non solo ti completa ma ti arricchisce.
Nel frattempo, mi è stata posta una domanda che mi ha risvegliato dalle mie conquiste felici e mi ha ributtato nel mondo che mi circondava, pieno di dubbi e di controversie. Su un blog un lettore mi ha chiesto: «Per quante generazioni i suoi discendenti dovranno rimanere tunisini, musulmani con ascendenze cristiane e parlare anche l’arabo?». Proprio in quei giorni di festa, il figlio di un’amica di famiglia, ingegnere informatico immigrato nel Sud californiano, era tornato a trascorrere le feste natalizie con sua mamma. Al suo seguito aveva la moglie statunitense e due meravigliosi bambini di 10 e 12 anni. Una mia vicina era rimasta inorridita dal fatto che i piccoli americani non capissero e non parlassero una parola di italiano. Probabilmente l’italiano, lingua dei loro nonni – ancora in vita – non è molto utile negli Usa ma perdere una lingua vuol dire smarrire tutta la cultura che c’è dietro. Non parlare a mio figlio in arabo vuol dire negargli quei sentimenti che per me vanno espressi nella mia lingua madre, che provengono da un cassetto speciale della mia mente e del mio cuore.
Quanto al rimanere tunisini, i miei discendenti potranno, grazie ad una legge di cui andiamo fieri, ricevere la cittadinanza della loro madre, anche se il padre è non tunisino, diversamente da altri Paesi arabi che non lo permettono. Questa cittadinanza non contempla nella sua acquisizione il fattore linguistico o tanto meno religioso, come qualcuno vorrebbe invece introdurre nella legislazione italiana. Per approfondire l’argomento riprendo in mano alcuni miei vecchi appunti sul libro Islam e libertà di Tariq Ramadan e rileggendole mi rendo conto quanto fossi stata ingenua, credulona ed erroneamente ottimista. Come potevo immaginare un’evoluzione così spaventosa del dibattito sulla presenza dei musulmani in Italia? Pensavo fosse ovvio che le seconde generazioni, almeno loro, si sarebbero sentite a casa loro, fra i loro, liberi di credere nel Dio che vogliono cercando di essere coerenti con ciò in cui credono così come con coloro con i quali vivono e costruiscono il futuro. Invece, le difficoltà che questo dibattito incontra oggi creano muri che la comunità musulmana fa fatica a scalare ma che fermano anche tanti tra quegli italiani che vorrebbero costruire invece di distruggere. Ho pianto alla lettura delle parole di chi si è messo di traverso tra il diritto dei figli dei musulmani immigrati e il diritto alla cittadinanza. Ho pianto per la tristezza, per la rabbia ma soprattutto per lo spavento.
Passando dalla felicità di aver raggiunto nel mio piccolo quei sogni che esprimevo, senza però immaginare di viverli in prima persona, alla tristezza di chi vede attorno a sé tanto odio, intolleranza e rifiuto dell’altro, non voglio abbassare le braccia. Sorrido alla vita che mi sfida e sfida tutti quelli che ieri come oggi non hanno mai voluto accettare l’associazione tra l’Italia e la parola razzismo. Sorrido perché rispetto la libertà di ognuno di essere ciò che desidera iniziando da mio figlio, auspicando che gli altri rispettino anche la mia di libertà.

Si può usare la Carta docente per abbonarsi a VITA?

Certo che sì! Basta emettere un buono sulla piattaforma del ministero del valore dell’abbonamento che si intende acquistare (1 anno carta + digital a 80€ o 1 anno digital a 60€) e inviarci il codice del buono a abbonamenti@vita.it