Famiglia

cazzuole e cemento, ad haiti è già domani

Incominciano a vedersi i primi abbozzi di ricostruzione

di Redazione

A Port-au-Prince, dopo nemmeno venti giorni dalla scossa, nelle vie della città si incontrano i primi operai al lavoro. Piccoli segni di speranza. Non gli unici. Anche se nelle tendopoli l’arrivo delle piogge mette davvero paura Cité Soleil è celebre ad Haiti; da anni lo è anche nelle cronache che da questo punto dei Caraibi rimbalzano all’estero. Qui nella Città del sole i tonton macoutes, i sostenitori del dittatore Douvalier, partivano per le loro spedizioni punitive a caccia di oppositori al regime; li bastonavano e giustiziavano a colpi di machete senza tante cerimonie. Qui, nella Città del sole, le chimères, i partigiani del deposto presidente Jean Bertrand Aristide, facevano altrettanto, con qualche riguardo in più per non alienarsi le simpatie di chi vedeva di buon occhio un drastico cambiamento sociale. È il ridotto più miserabile e violento di Port-au-Prince, il più povero, una sterminata bidonville di 300mila persone – ma nessuno sa in realtà quanti siano veramente -, che il terremoto ha reso ancora più miserabile. Nel bel mezzo della baraccopoli c’è il quartiere dei caschi blu brasiliani, una delle principali componenti di quel corpo di pace delle Nazioni Unite che dal 2004 è accampato nella città con 13mila uomini. C’è folla all’ingresso della caserma. Aspetta la sua razione di viveri. Riso, fagioli rossi, farina bianca, farina di mais, olio. C’è ordine nell’assembramento.

Espatri illegali
Poco distante dal punto di distribuzione sorge una tendopoli. In realtà non si vedono tende, ma stracci legati a dei pali, delle lenzuola a volte, o gli stessi sacchi che contenevano gli aiuti, tagliati, cuciti tra loro e usati per costruire un riparo. È la stagione secca; sino ad aprile non dovrebbe piovere. Ma c’è timore. Gli accampamenti, quelli più precari, diventerebbero impraticabili con le prime gocce. Dei maleodoranti incubatoi di germi. Poi ci sono gli uragani in arrivo. L’epoca dei cicloni, nell’area dei Caraibi, inizia già a maggio.
Ci sono quasi duemila persone sotto questi tendaggi. Moltissimi i bambini. Corrono tra mucchi di spazzatura e rigagnoli di acqua lurida improvvisando dei giochi, come fanno i loro coetanei ad altre latitudini. Molti gli orfani. È una questione delicata questa degli orfani. Con quelli resi tali dal terremoto ce ne sono 380mila ad Haiti, migliaia più migliaia meno. I numeri, qui, son quel che sono. Ogni anno – e questo è un dato più sicuro – tremila piccoli prendono la via della Francia, prevalentemente, poi Stati Uniti, Canada e Olanda. Fiammetta Cappellini, responsabile di Avsi, chiama alla prudenza. Per il momento, dice, preferiamo parlare di bambini separati. Nelle prossime settimane potrebbe apparire un genitore, un parente stretto, qualche familiare lontano, qualcuno, insomma, che se ne vuole fare carico. C’è troppa concitazione in questo momento. Non è tempo – insiste – di prendere decisioni sul loro futuro. Ci sono dei casi conclusi, delle adozioni giunte a termine e con tutti i requisiti richiesti dalle leggi. A queste è giusto dare corso. Ma non bisogna andare oltre. Per il momento. Il governo del presidente René Preval ha dichiarato di voler facilitare le adozioni. È bastato perché si aprisse un varco in cui sono sicuramente passati degli espatri illegali di piccoli haitiani, assicura Fiammetta.
L’Hôpital Général è a due passi dalle rovine del Palazzo presidenziale. Il terremoto lo ha parzialmente risparmiato. Le costruzioni sono basse, orizzontali, di un bianco sporco con le rifiniture verdi; le pareti hanno crepe vistose ma nell’insieme non hanno offerto grande resistenza alle onde sismiche e sono rimaste su. I padiglioni di degenza sono vuoti. I feriti sono nelle tende, fuori, negli spazi aperti. Il settore traumatologico e ortopedico è un girone dantesco. Nella prima settimana dalla grande scossa l’80% degli interventi chirurgici eseguiti si sono risolti in amputazioni. Come negli altri ospedali del resto, l’Hôpital de la Paix, i Centres de Santé, l’ospedale di Tabarre, e quelli allestiti da Médecins sans frontières. Un po’ meno amputazioni sulla nave americana Confort, ormeggiata nella bellissima Bahia di Port-au-Prince, vicino all’isola di Gonaives, dotata di apparecchiature sofisticate. David Bredier, di Médecins du Monde, coordinatore generale delle urgenze, conferma di averne fatte una trentina al giorno. Adesso si opera ancora, ma sugli interventi già fatti, per bloccare una cancrena che non si è fermata, per ripulire le cesure, per preparare l’arto alle protesi future. Ci sono molti bambini tra i mutilati.
Il centro di Port-au-Prince è un unico detrito che i variopinti tap tap si ostinano a schivare con la gente appesa a grappoli sulle fiancate dei loro trasporti. Ci vorranno mesi solo per rimuovere i detriti. Dieci anni, calcolano gli esperti, per ricostruire la città. Il presidente René Preval ha anche ventilato la possibilità di un trasferimento di Port-au-Prince in altra località, una ricostruzione ex novo, come succedeva con le antiche capitali latinoamericane nei secoli XVII e XVIII quando venivano distrutte da incendi, attaccate da legioni di insetti o investite dai miasmi insalubri delle paludi circostanti che provocavano epidemie incontrollabili. Nei tempi moderni non si ha notizia di una popolosa capitale trasferita a seguito di un cataclisma naturale.

Rue Saint Martin
Nel centro di Port-au-Prince l’odore di morte è rivoltante. Non si sa quanta gente sia sepolta sotto queste montagne di detriti. E non lo si saprà mai. Crollata Notre Dame, la bella cattedrale coloniale. Sotto le macerie sono morti anche l’arcivescovo e il suo vicario generale. Un religioso mi mostra il testo di una omelia di monsignor Joseph Serge Miot. L’ha pronunciata per l’anniversario della visita di Giovanni Paolo II all’isola nel marzo del 1983. Ripete, con il Papa, che ad Haiti «”qualcosa deve cambiare” per poter avere un equilibrio sociale», e aggiunge «che il Papa avrebbe tutte le ragioni anche oggi per dire quello che disse allora». I resti di mons. Miot e del suo collaboratore si trovano adesso ai margini di una piantagione di banani. Non ci sono lapidi, non ci sono fiori né ceri, solo una croce bianca.
Una fila interminabile blocca il passaggio del furgone. La testa della colonna si schiaccia all’ingresso di un palazzo, dove un nutrito drappello di marines armati sino ai denti controlla che tutto si svolga con ordine. Il sole spiove sulle teste, c’è polvere nell’aria. La gente è lì da ore e, lo si capisce dalla lentezza con cui la fila si muove, dovranno restarci per altre ore. Qualcuno accenna a un passo di danza. Moltissime le donne. Vengono dalle tendopoli. Hanno bambini attorno, i più piccoli aggrappati alle gambe. In direzione opposta, in senso contrario alla fila, altre donne camminano veloci con una borsa sulla testa e i bimbetti dietro. È il bottino della lunga attesa. Una borsa di plastica dai colori forti, come piacciono agli haitiani. Fermiamo una ragazza col suo carico in equlibrio. Le chiediamo con gentilezza di mostrarci il contenuto. Resiste un po’, teme forse un qualche controllo o che glielo si voglia portare via. Poi appoggia la borsa in terra e la apre. Tira fuori dei rotoli di carta igienica, una pentola, un cucchiaio, un asciugamano, spazzolino da denti, due tubetti di dentifricio, del sapone, una confezione di shampoo. Ci allontaniamo per risalire la città in direzione nord. Dieci minuti dopo l’occhio si ferma su una scena che non ci si aspetterebbe. Cinque haitiani al lavoro. I mattoni sono bianchi, puliti, nuovi. Due di loro hanno la cazzuola in mano e il secchio del cemento. Altri due scelgono i mattoni da un cumulo di macerie, li ripuliscono e li passano a un terzo che li posiziona. La squadra sta tirando su la parete esterna di una bottega. Una metà è già costruita. Il punto, la scena, la prima di questo genere dopo 19 giorni meritano di essere ricordati: rue Saint Martin, numero civico inesistente, vicino ad una scuola.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA