Famiglia

Diritti sempre più piccoli

Dal Veneto al Sud l'impressionante crisi della comunità di accoglienza per minori

di Benedetta Verrini

Rette che ritardano anche di 3/4 anni e strategie al risparmio dei Comuni. Così stanno soffocando le 1.500 strutture che si occupano dei “fuori famiglia” Il primo campanello d’allarme è scattato in Veneto, subito dopo Capodanno. «Costruite qualche rotonda stradale in meno e investite quei soldi per i diritti dei minori», hanno scritto Cnca, Comunità Papa Giovanni XXIII, Istituto Don Calabria e Cncm. Con una lettera aperta alle istituzioni locali, i giganti dell’accoglienza hanno denunciato un punto di non ritorno: «Con le risorse dimezzate, che dal 2005 ad oggi sono passate da 10 milioni a poco più di 5 milioni di euro, qui in Veneto possiamo lavorare solo sull’emergenza e sui casi più gravi». Due settimane più tardi, il malessere esplode in Campania: a Napoli gli operatori della Federazione Sam occupano il 94esimo Distretto sanitario. Il motivo è che le comunità di accoglienza per minori, che in Campania sono circa 200 per 1.570 minori, non ce la fanno più: il Comune non paga le rette da 19 mesi. Alcune strutture sono costrette a chiudere, nelle altre il turn over del personale è fortissimo, i Comuni affidano i bambini col criterio del minor costo. Cosa sta accadendo?
«Manca il Piano Infanzia, manca un quadro d’azione nazionale che costituisca la cornice, il quadro unitario in cui stabilire le priorità d’azione, l’allocazione dei fondi, l’esigibilità dei diritti», analizza Liviana Marelli, responsabile per l’area minori del Cnca. Il nuovo Piano, promesso dal governo entro la fine di gennaio, colmerà un vuoto lungo cinque anni. Abbastanza per creare spaesamento: le Regioni non hanno predisposto strategie d’azione locali, i criteri di autorizzazione delle comunità (più di 1.500 nelle 15 regioni finora censite) sono a macchia di leopardo, servizi e operatori lavorano in base all’emergenza, la prevenzione va a farsi benedire.
La presa in carico degli oltre 30mila minori fuori famiglia, sia in affido familiare che in comunità, comporta per i Comuni italiani una spesa sociale pari a 470 milioni di euro (è l’ultimo dato Istat del 2006). Nessuno studio o monitoraggio sistematico è mai stato fatto, finora, per sapere se questo investimento è andato a buon fine e abbia permesso alle famiglie d’origine e ai loro figli di uscire dal vortice dell’esclusione sociale.

Ricette per sopravvivere
«C’è una sperequazione molto preoccupante tra Nord e Sud», aggiunge Samantha Tedesco, responsabile Area Programmi e sviluppo dei Villaggi Sos Italia. «I diritti dei bambini dovrebbero essere gli stessi ovunque, eppure in alcune realtà, dove i Comuni sono in difficoltà oggettiva, i pagamenti delle rette ritardano sempre più, anche di 3-4 anni. Per le grandi realtà come la nostra, le donazioni di privati e la mutua assistenza interna rappresentano una garanzia non solo di sopravvivenza, ma anche di tenuta nella qualità dei progetti. Ma le piccole realtà soccombono». I segnali sono dappertutto: «C’è una strategia al risparmio», spiega Walter Martini della Comunità Papa Giovanni XXIII. «I Comuni tentano di affidare i minori alle nostre case famiglia con affidamenti familiari, in modo da poter assegnare un contributo di gran lunga inferiore alla retta mensile. Oppure spingono perché le nostre coppie prendano in adozione i casi più gravi, in modo da poter sospendere la contribuzione».
I ritardi nei pagamenti poi impattano sui minori stessi. L’accompagnamento psicologico, ad esempio, così necessario per tanti bambini e adolescenti che vengono da situazioni di deprivazione e violenza, rischia di diventare un optional. «La competenza socio-sanitaria spetta alle Asl», spiega Marelli. «Se per la psicoterapia dobbiamo aspettare come per una radiografia, è ovvio che l’intervento viene vanificato».
Ancora. Il famoso “prosieguo amministrativo”, cioè la possibilità di prolungare la permanenza di un giovane già maggiorenne in comunità fino ai 21 anni, «è ormai difficilissimo da ottenere», sottolinea la Marelli. Che aggiunge: «I ragazzi stranieri, in particolare, non hanno più nessuna possibilità di accedere a questa opportunità. Sono tanti quelli che ospitiamo senza retta».

Modello Sesto San Giovanni
A Sesto San Giovanni, presso la Comunità educativa Hakuna Matata che accoglie 6 bambini dai 5 agli 11 anni, tutto questo sembra un’eco lontana. La comunità è una casa ed è quasi un modello. Hakuna Matata è una delle comunità educative di tipo familiare promosse e gestite dalla cooperativa sociale La Grande Casa .La responsabile di Hakuna, Catia Feoli (socia della cooperativa), sa bene che la “tenuta” del sistema dipende da molti fattori. «Ma alla fine è la stabilità degli operatori che ci permette di reggere», spiega. «Ci consente di dare a questi bambini il sostegno di un ambiente quasi familiare: se il nostro gruppo, invece, per svariati motivi diventasse fragile, sarebbe molto faticoso andare avanti e fronteggiare i casi più problematici».


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