Nel consueto tratto che ogni mattina percorro in bicicletta per raggiungere la scuola, attraverso il parco Sempione, un’area verde nel centro di Milano. Lì lo scorso sabato incontro una coppia di runner, marito e moglie sui 50 anni, che tengono il passo, espressione di una forma fisica ben curata. Mi affianco. Lei ha assistito a una conferenza di Gustavo Pietropolli Charmet (fondatore dell’istituto Minotauro), e dice al marito: «Charmet ha detto che di fronte al figlio adolescente, che non risponde più ai codici dei genitori, la madre va in depressione e il padre resta deluso». Lei così propone di iscrivere il figlio a una società sportiva. I pochi minuti che ormai mi separano dal suono della campanella, mi costringono a imprimere alla bici poderose pedalate e ad allontanarmi dalla coppia di corridori.
Intanto rifletto. Certo, rispetto alle generazioni precedenti il padre si è “maternizzato”, visto che fin dalla sala parto avviene il passaggio del neonato dalle braccia della materne a quelle paterne, e rispetto al passato si pone più in ascolto del figlio. Quando però l’adolescente va per la sua strada, tentando di affermare la propria personalità, il padre resta deluso. La madre, invece, teme che il figlio passi dalla dipendenza materna a quella delle sostanze, e che finisca nella rete dei gruppi giovanili deviati. Entrambi, spesso, affidano il ragazzo a un adulto, a una figura terza, come l’allenatore. Durante l’adolescenza la società sportiva sostituisce spesso l’ambiente famigliare; all’interno della squadra si stabiliscono relazioni, impegni e obiettivi. Molti genitori sono convinti che un bravo allenatore sia chi “strapazza” i ragazzi e li rimprovera, perché è solo così che «si forma il carattere e sapranno affrontare la vita», ma gli adolescenti rispondono con la delusione e l’abbandono dello sport. Un bravo allenatore è colui che, evidenziando gli errori, fa crescere i ragazzi, e i genitori non possono delegare in toto, restando estranei al processo educativo dei figli.
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