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La mia letteratura, incatenata alla sedia

Barbara Garlaschelli, scrittrice dalla vita tutta speciale

di Franco Bomprezzi

Da quando aveva 15 anni è paralizzata per un tuffo sbagliato. Un destino che l’ha fatta diventare quel che desiderava essere: scrittrice Barbara Garlaschelli è una donna bella e interessante, dal sorriso aperto e ironico, che sa vivere con grande equilibrio e leggerezza anche la sua disabilità fisica, una paraplegia determinata da un tuffo sfortunato, come succede a tanti giovani. Aveva 15 anni, ora ne ha una trentina di più, e in questo lungo arco di tempo è diventata una scrittrice importante, apprezzata, a cominciare dal suo esordio con Sirena. E dunque questa è un’intervista tra due persone che vivono in sedia a rotelle e che vivono usando le parole, e anche le nuove tecnologie. Difficile incontrarsi di persona, in queste settimane, e così quello che segue è il resoconto di una vivace e lunga conversazione, guardandoci in viso, grazie a skype, ossia una video telefonata con la webcam del computer. Il registratore ha fatto il resto.
Vita: Se tu dovessi raccontare il tuo romanzo cosa diresti, senza svelare la trama e il finale?
Barbara Garlaschelli: È un romanzo che racconta due tipi di guerre. Una è la guerra nel senso classico del termine, nello specifico la seconda guerra mondiale, in Italia, a Milano. L’altra è una guerra molto più silenziosa che credo faccia altrettante vittime ed è quella che si scatena all’interno delle mura domestiche. Due guerre apparentemente diverse ma legate dal “male” che generano e dal fatto che una guerra vissuta dal mondo abbia così lunghi tentacoli che riesce a modificare la vita delle persone anche a lunga distanza, negli anni. Per cui i personaggi (la storia si svolge in un arco lungo di tempo, dal 1939 a oggi) è come se fossero comunque avvolti in una ragnatela che parte da lontano.
Vita: Parliamo di questa Milano che tu hai raccontato, la Milano della guerra, e poi la ricostruzione e la nuova urbanizzazione. C’è molta malinconia nella seconda parte, quella più vicina ai giorni nostri, e molta gioia nella prima, che parla del periodo di guerra?
Garlaschelli: Io ho avuto la fortuna di avere un padre che era un grande affabulatore, un raccontatore formidabile che ha vissuto molto intensamente la sua infanzia e la sua città, Milano. Ci sono i racconti di tante persone? Mio padre Renzo era nato nel 32 quindi aveva ricordi lucidissimi della sua infanzia, che è stata molto felice nonostante la guerra, e questa è una cosa che mi ha molto colpito. Il protagonista maschile del romanzo è ispirato a mio padre, alcuni episodi li aveva addirittura scritti? Era figlio di un ferroviere, in via Caracciolo i bambini vivevano sempre insieme, in strada, in una città che era molto diversa da quella che noi vediamo adesso, e che io ho, come dire, ricostruito sfogliando decine di libri di fotografie. L’infanzia permette di vivere in una sorta di mondo sospeso. E poi esisteva questa solidarietà pazzesca, un mondo in cui erano tutti uguali, la povertà, la fame. E poi c’è stata l’illusione della ricostruzione, un grande entusiasmo, una voglia non soltanto di ricostruire la città, ma di ricostruire se stessi. Poi invece ci si trova a vivere in un posto che non è quello che tu avevi sognato? Una città che ha perso un collante importante che era l’umanità, la comunicazione fra le persone, la solidarietà.
Vita: Nel romanzo lavori attorno al profilo psicologico di personaggi difficilissimi: una mamma che non riesce ad amare suo marito che la adora, e non riesce soprattutto ad amare in modo normale sua figlia, e ne fa oggetto di possesso, perfino fisico. La figlia reagisce a questa oppressione con una fuga che non raccontiamo perché fa parte dell’essenza e del finale del romanzo. Questo significa che tu hai visto molto da vicino il disagio mentale. Un disagio che nasce dalle condizioni di vita del nostro tempo?
Garlaschelli: Assolutamente sì. Ho lavorato per tanto tempo come scrittrice, per raccogliere storie, all’interno di un Cps, un Centro psicosociale di Milano. Una grande fortuna, ho incontrato persone meravigliose che mi hanno raccontato la loro storia, ho studiato, mi sono documentata, e la cosa che ho capito – ed è il filo rosso che lega più o meno tutte le storie che ho ascoltato, straordinarie per l’intensità con la quale sono state vissute, e per il disastro che talune persone subiscono nella loro vita – è la capacità di sopravvivenza.
Vita: Hai dunque incontrato persone che oggi la società definisce sbrigativamente “psicolabili”? Tu racconti queste storie, ma non dai mai un’etichetta? ti metti in ascolto.
Garlaschelli: Sì, è vero, si gioca su una grandissima ambiguità, che è la parola “normalità”. Una parola che in sé non significa nulla. Io per esempio vivo su una sedia a rotelle, è un dato di fatto, che segna una diversità. Quando poi si tratta di un disagio mentale, la cosa diventa più difficile, perché la follia fa molta paura – la mia è una interpretazione da scrittrice – perché è molto vicina a noi, perché non ci vuole niente, c’è un foglio di carta velina che ci separa da uno stato di disagio profondo. Le persone che soffrono di disturbi mentali sono molte di più di quelle che vanno a farsi curare al Cps. Queste almeno sono persone che riconoscono il proprio disagio, per cui, se tutto va bene, sono molto più sane di quelle che invece non lo riconoscono, che pure si sentono male, ma stanno lontano dai luoghi di cura. E sono quelle che invece ambiscono più di tutte alla cosiddetta “normalità”. Questa parola dunque un valore ce l’ha, la normalità che personalmente io aborro, in realtà ha un valore, perché è stato fatto passare il messaggio che per essere accettato devi essere normale. Ma che cosa vuol dire? Questo non si riesce a spiegare. Ma è vero che la malattia mentale, il disagio mentale, sono un fardello pesantissimo da portare.
Vita: Un disagio legato alla solitudine.
Garlaschelli: Sì, si tratta di persone profondamente sole. Quando ho scritto FramMenti, storie da un fortino di periferia, che è il risultato di questo lavoro al Cps, mi sono detta: io non dirò mai più “mi sento sola”, perché lì ho capito davvero che cosa vuol dire sentirsi soli.
Vita: Mi ha colpito la tua capacità di raccontare il dolore e l’infelicità, pur essendo tu una persona molto positiva, anche rispetto alla disabilità. In questo romanzo tu sfiori la disabilità, la racconti soltanto con due personaggi che sono apparentemente minori…
Garlaschelli: Si trattava di una esigenza narrativa, io avevo bisogno di creare dei personaggi che fossero amici dei protagonisti. Che erano soli. Ho creato due personaggi che fisicamente potessero essere riconoscibili, perché diversi. Una bambina cieca e un ragazzino focomelico. Poi ai personaggi ti affezioni, anche se sembrano secondari, appaiono poco nella storia, però la loro funzione è fondamentale.
Vita: Proprio come nella realtà, i due protagonisti affrontano i due ragazzi disabili con tutti gli stereotipi e le paure di chi non conosce?
Garlaschelli: Io non sono nata su una sedia a rotelle, la mia disabilità risale a quando avevo quindici anni e ho cercato di ricordare anche quella che era la mia reazione di fronte a una diversità così forte come una evidente anomalia fisica. Il corpo per me è stato sempre importante, anche dal punto di vista narrativo. Il nostro giudizio primo sulle persone parte dall’aspetto. È un dato oggettivo, inutile negarlo. Io sono stata da una parte e dall’altra. Ho cercato di raccontare nel modo che per me era più verosimile questo incontro.


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