Cultura

Un’italiana chiamata Sumaya

I nuovi documenti della collaboratrice di Yalla: «Questo è il mio Paese»

di Redazione

Sono fortunata: fra le leggi dello Stato e i fondamentali della mia fede musulmana non c’è alcuna incompatibilità. Anche se in molti si illudono che sia così Il 14 dicembre 2009 sono finalmente diventata cittadina italiana. Un giorno atteso nella mia vita, un giorno giunto in ritardo ma arrivato. Si è più volte parlato del mio caso, della burocrazia che ha portato alla non riuscita naturalizzazione al diciottesimo anno di età, eccetera. Non starò oggi a ripetere questa storia. Vorrei invece parlare delle emozioni provate quel giorno, il giorno dopo ancora e oggi ancora. Commozione mischiata a gioia, imbarazzo per le tante telecamere (Al Jazeera, RaiTre, La Sette e altri), ansia di porre la mia firma sul Registro dei nuovi italiani e dire «Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana».
Molti italiani “doc” non hanno mai pronunciato questa frase, molti italiani “doc” deridono questa frase e noi che la pronunciamo. Ma essere italiani non significa appunto essere fedeli alla Repubblica italiana? A chi se no? Alla propria moglie o marito, beh certo che sì, ma li sì che ci sarebbe da ridere… o forse piangere. Resta di fatto che migliaia di giovani figli di immigrati si sentono davvero italiani e pronunciano questa frase con sincerità e con le lacrime agli occhi. Forse, a chi ci osserva da lontano (confuso dalle mille e una informazioni che lo attanagliano tutti i giorni) sfugge un’altra domanda di fondo: cosa significa essere italiani? Avere una cultura comune? Una religione comune? Una lingua comune?
Già su questi soli tre punti si potrebbe discutere per ore. Ma qualcuno è mai stato in Alto Adige? Ad un certo punto “l’Italia” sparisce! Neppure i cartelloni stradali hanno più la doppia lingua. Perché? Perché l’Italia riconosce minoranze linguistiche storiche. Perché l’Italia riconosce di essere un Paese basato su una forte pluralità sin dalla sua nascita. Quindi l’italianità è anche un continuo trasformarsi, adattarsi, svilupparsi, arricchirsi. La presenza di nuovi e “altri” italiani sul suolo nazionale non è una novità. Persone che si riconoscono in tradizioni, lingue e religioni diverse ci sono.
Dico questo perché negli ultimi anni, e negli ultimi mesi in particolar modo, soffia un preoccupante vento di intolleranza e mistificazione. Intolleranza verso chi è diverso e mistificazione di una realtà diversa da come si racconta. Un teorema della sociologia, coniato da William Thomas, dice: «Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze». Ebbene questo riguarda in particolare rom, musulmani, romeni, ecc? E in particolar modo sui musulmani si sta scatenando un polverone, che appunto impedisce di osservare la realtà. Stupisce così un Giovanni Sartori che nel suo editoriale sul Corriere della Sera prima di Natale esordisce così: «L’Islam non è una religione domestica; è invece un invasivo monoteismo teocratico che dopo un lungo ristagno si è risvegliato e si sta vieppiù infiammando. Illudersi di integrarlo “italianizzandolo” è un rischio da giganteschi sprovveduti, un rischio da non rischiare».
Cosa vuol dire italianizzare l’Islam? Al massimo si italianizzano le persone, in questo caso i musulmani. Chiariamo una cosa: per i musulmani la legge fondamentale da seguire e quella per cui essere giudicati è quella del Paese in cui si vive. Che questa sia compatibile con le regole di vita religiosa o meno va un po’ a fortuna. In Italia la fortuna c’è visto che né la Costituzione né le leggi dello Stato vanno a ledere principi fondamentali dell’Islam anzi, sono tutti più che condivisibili.
I sondaggi confermano questa questa situazione: guardando all’Europa quello eseguito da Gallup e da Coexist Foundation riferisce che il 77% dei musulmani inglesi si identifica con il Regno Unito, mentre la popolazione generale si ferma al 50%. Un simile risultato è stato riscontrato in Germania, riferisce il sondaggio. «Questa ricerca mostra come molte delle opinioni sui musulmani e la loro integrazione sono di gran lunga sbagliate», dice Dalia Mogahed, del Gallup Center for Muslim Studies e co-autrice dello studio.«I musulmani europei vogliono far parte della più ampia comunità e contribuire di più alla società» dice ancora.
Rob Broomby della Bbc ha detto che i risultati della ricerca sono sorprendenti, perché fin dagli attacchi dell’11 settembre negli Usa vari opinionisti hanno più volte messo in dubbio la lealtà dei musulmani europei verso i Paesi nei quali vivono. Nel Regno Unito la ricerca ha trovato che più di tre quarti dei musulmani si identificano con il loro Paese e le loro istituzioni – molti di più persino della popolazione generale. Ma nonostante la stragrande maggioranza dei musulmani inglesi (82%) ritenga che i musulmani siano cittadini leali, la popolazione generale rimane sospettosa nei loro confronti.
E in Italia? L’immigrazione di natura islamica è recente. Abbiamo solo ora nuovi italiani, figli di immigrati che crescono e cominciano ad avere la coscienza di sé e della propria identità. In Italia da sempre, associazioni come il Gmi – Giovani musulmani d’Italia hanno lavorato “preventivamente” verso la costruzione dell’identità dell’italiano musulmano. Questo significa condividere valori e principi fondamentali, la legge dello Stato, essere fedeli, rispettarne i principi, pagare le tasse e contribuire all’equilibrio sociale. D’altra parte lo Stato deve garantire ciò che si prefigge come obiettivi e regole e deve pretendere che i doveri vengano adempiuti. Attenzione dunque a “forzare la realtà”. La storia di “al lupo, al lupo” la conosciamo tutti.
Ora, con gioia, posso vivere da italiana riconosciuta. Posso preoccuparmi, arrabbiarmi e dire la mia, da italiana che contribuisce a far crescere il suo Paese. Per favore non rinfacciate a noi nuovi italiani cosa fanno o non fanno i nostri Paesi d’origine (che spesso nessuno di noi mai visto), non fateci pesare le scelte di “altri”, perché non è la nostra storia. Noi possiamo contribuire a far arrivare un messaggio altrove, a sviluppare e far crescere altri Paesi, anche quelli d’origine. Alla fine dovremo però rendere conto solo al nostro Paese. Che piaccia o meno, l’Italia.

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