Welfare

Minori stranieri, pochi reati tanto carcere

Il miraggio delle misure alternative

di Benedetta Verrini

Hanno dai 15 ai 17 anni. Clandestini, soli. Con un disperato bisogno di soldi. Quando commettono un reato, per loro la prigione è l’unica possibilità. A meno che… Per la prima volta dopo 12 anni, negli istituti penali minorili sono entrati più ragazzi italiani che stranieri. A fine 2008 il dipartimento per la Giustizia minorile ha registrato il sorpasso: 694 italiani contro 653 detenuti di nazionalità straniera (in prevalenza marocchini, romeni ed ex jugoslavi).
Ma se di “sorpasso” si può parlare, sarà meglio chiarire che non ha nulla di sorprendente: dai primi anni del 2000 ad oggi, il numero di denunce a carico di ragazzi italiani si è mantenuto costantemente superiore a quello relativo agli stranieri, circa 30mila all’anno contro 10mila. L’anomalia, dunque, stava (e sta) da un’altra parte. Per quanto rappresentino un terzo del totale, le denunce a carico di minorenni stranieri hanno conseguenze molto più pesanti: il carcere appare la soluzione più frequente e davvero pochi di loro, rispetto ai colleghi italiani, accedono a misure sostitutive o alternative della pena (in carico ai servizi sociali, sempre nel 2008, c’erano 14.397 italiani e appena 3.417 stranieri).
Una situazione di discriminazione che il dipartimento ha deciso di mettere tra le principali emergenze da combattere nel 2010. Sono migliaia i ragazzi da proteggere e rieducare attraverso misure non privative della libertà, tenendo conto della loro minore età e delle particolari condizioni di fragilità che li accomunano (neocomunitari o clandestini privi di figure parentali di riferimento, usati come manovalanza dalla malavita organizzata, vittime delle politiche di esclusione più legate all’allarme sociale che alla realtà).

Alternative possibili
La costruzione di un percorso alternativo al carcere, però, «dipende maggiormente da elementi oggettivi che dalla mancanza di una cultura di accoglienza e di riabilitazione» sottolinea Alessandro Padovani, direttore dell’Istituto Don Calabria di Verona. Impegnato su diversi fronti della solidarietà, dalla lotta al disagio fino alla formazione e allo sport, il Centro Don Calabria accompagna ogni anno circa 100 ragazzi nei guai con la legge attraverso percorsi di reinserimento sociale, compresa la giustizia ripartiva che prevede la costruzione di un dialogo con la vittima del reato. Nell’ambito del Piano nazionale anti discriminazione, l’ente è stato scelto dal ministero della Giustizia per l’attuazione del progetto europeo «In&Out» per abbattere gli ostacoli che impediscono ai minori stranieri l’accesso alla messa alla prova e all’utilizzo della pena in modo riabilitativo.
Compito difficile, visti gli «elementi oggettivi» che lo ostacolano. «Parliamo di ragazzi invisibili, che lo Stato intercetta solo in occasione del reato», spiega Padovani.«Hanno dai 15 ai 17 anni, sono clandestini, spesso non accompagnati. Per arrivare in Italia hanno contratto un debito con i “traghettatori”. Hanno l’urgenza di mantenersi e reperire denaro da inviare a casa». Oltre il 60% dei reati commessi è, non a caso, contro il patrimonio.
Ogni volta che un ragazzo minorenne viene denunciato, la Procura dispone un accertamento sulla sua situazione. I servizi sociali valutano se ha casa o rete parentale, se va a scuola, se ci sono precedenti segnalazioni e, nel caso sia straniero, cerca di ricostruire la sua storia migratoria. «E soprattutto si valuta la possibilità di realizzare un progetto rieducativo o ripartivo da proporre al giudice», spiega il direttore del Don Calabria. «Va da sé che la scelta della messa alla prova o di altri strumenti, alla fine, per un minore straniero privo di domicilio e rete parentale dipende dalle opportunità sul territorio: c’è posto in comunità? Ci sono abbastanza risorse economiche per realizzare un progetto personalizzato, per attivare una borsa-lavoro? Ci sono sinergie con aziende?». Nelle regioni del Nord ci sono più opportunità che nel Sud. Il tema del lavoro è fondamentale per la riuscita del progetto: «Il reperimento di risorse per una vita migliore è il motivo per cui hanno lasciato la madrepatria, e anche il motivo per cui poi sono caduti in un percorso di illegalità», avverte Padovani. «Se la prospettiva non è la detenzione ma l’essere ospitati in una struttura, la formazione, l’inserimento in un circuito lavorativo pulito e la conquista di un’autonomia di vita, allora è possibile recuperarli».

Finali lieti e no
La percentuale dei ragazzi stranieri “salvati” con questo approccio è del 50%. «È una proposta in cui la motivazione è fondamentale. Per loro è faticoso accettare la misura alternativa, scontare la pena in carcere è più facile, li impegna di meno», prosegue. E racconta che in Veneto la strategia di recupero funziona piuttosto bene grazie al partenariato con le piccole imprese e gli artigiani: nonostante il problema della lingua e la bassa formazione, molti ragazzi stranieri hanno buone competenze per il settore primario, l’area meccanica e metalmeccanica. Le ragazze, invece, dopo l’allontanamento dai circuiti criminali di cui sono facile preda, riescono a inserirsi nei settori dei servizi e della ristorazione. E alla fine della misura, quando sono diventati maggiorenni e devono regolarizzarsi, «l’avere una casa, un’autonomia economica, un piede in azienda consente loro di ottenere il permesso di soggiorno. E di fare anche un bel salto: in questi anni c’è anche chi si è laureato». Ma per un percorso finito bene, molti altri si sono persi. «E non sempre per colpa loro. Ma perché non ci sono state le risorse economiche e la disponibilità di servizi ed enti locali ad offrire qualcosa di più rispetto allo scontare la pena».

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