Non profit

La parabola di un uomo venuto da Knoxville

Editoriale

di Giuseppe Frangi

In questi giorni di pausa ho avuto la fortuna di leggere un libro straordinario. Si intitola Suttree e il suo autore è uno dei maggiori scrittori viventi, Cormac McCarthy. Non è un libro scritto oggi, ma 40 anni fa: arriva oggi sull’onda del grande successo che i romanzi successivi di McCarthy hanno avuto anche in Italia (i critici del Corriere della Sera hanno scelto Non è un paese per vecchi, scritto nel 2004, tra i libri del decennio). Questo è infatti un libro arduo, nella trama e nella scrittura. Un libro lungo, a tratti implacabile nella durezza delle immagini e nella marginalità dei suoi personaggi. Suttree è il nome del protagonista: un uomo che vive in una casa su una chiatta a bordo del fiume che attraversa Knoxville, una citta dello stato del Tennessee, negli Usa. Siamo negli anni 50. Lo sviluppo industriale ha devastato tutto, con la sua invasività senza controllo. Le acque del fiume in cui Suttree pesca a bordo del suo “schifo” (un’imbarcazione stretta e lunga usata soprattutto per la pesca) sono acque melmose, su cui galleggia ogni genere di relitti. Attorno a Suttree ruota un mondo di derelitti, di espulsi da ogni contesto sociale, relegati a vivere di violenza e di espedienti. Anche se tra loro sopravvive una sorta di legame solidale, di amicizia vera, residuo tenero e caparbio di un mondo sparito, inghiottito dai nuovi egoismi sociali.
Sono uomini selvatici, non riconducibili a nessuna regola del vivere. McCarthy nel raccontarli non fa sconti; non risparmia nessuno degli aspetti brutali della loro quotidianità. Sono anche uomini al capolinea, perché i lavori che stanno portando l’autostrada in città tra breve faranno piazza pulita a forza di bulldozer dei loro miserabili rifugi.
Sono uomini reali, ma per i quali non sarebbe minimamente pensabile qualsiasi progetto di reinserimento sociale: anche la generosità più intraprendente andrebbe a cozzare senza speranze incontrando uomini come Suttree. E allora che interesse c’è a seguire, come lettori, la loro terribile deriva? Perché non ci si riesce a sganciare, come lettori, da questi “relitti umani”? Perché in realtà poco alla volta ci si rende conto che loro stanno inseguendo qualcosa che interessa anche noi, anche se sfugge dagli interessi che costituiscono l’orizzonte della nostra quotidianità, anche la più buona. È qualcosa di più, qualcosa di oltre, che da tempo non s’era affacciato con tanta energia e tanta nettezza. È la domanda sul destino di ciascuno, che nessuna convenzione sociale, nessun assetto culturale può fornire, perché sta oltre e sta prima. Ma è una domanda che una volta posta ti insegue e non ti lascia in pace: se la eludi riduce a finzione tutto quello che, anche di buono, ci circonda. A Suttree nella parte finale del romanzo capita di sfiorare la morte per una febbre tifoidea. Al prete che un po’ goffamente arriva a dargli l’estrema unzione, Suttree risponde in malo modo. Ma gli concede uno scampolo di dialogo in cui tocca un punto cruciale. Dice che nel semi coma ha «imparato che di Suttree ce n’è uno e uno soltanto». L’unicità che noi siamo. La non replicabilità di ciascuno. Il nostro destino ha a che vedere con questa dimensione vertiginosa. Ci volevano i nuovi barbari di McCarthy per riproporcela. Si può ripensare il sociale senza partire da qui?

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