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Nella Sardegna dei fill’e anima

Famiglia, vita, morte: Michela Murgia firma il libro più intenso del 2009

di Benedetta Verrini

Nascere e morire in una società che si tiene ancora insieme. Dove la famiglia è il filo di una rete. Dove la parola “noi” ha un senso compiuto, che travalica la burocrazia. Vita ha incontrato la scrittrice Michela Murgia, che nel suo “Accabadora”, uno dei migliori romanzi italiani del 2009, parla della tradizione tutta sarda dei fill’e anima. Molto più di un affido, molto diverso da una semplice adozione.

Ecco un estratto dell’intervista pubblicata su Vita n. 47 a pag.15.

La solitudine ci ha presi ostaggio. La famiglia non è più il filo di una rete, è solo un nucleo. E questo è un male. Lo sa bene Michela Murgia, che con il suo Accabadora, uno dei migliori romanzi italiani di quest’anno, parla di famiglie che s’incontrano secondo una regola completamente diversa. Quella della comunità.

Bisogna stare in Sardegna e bisogna ascoltare parole antiche, come “fillus de anima”, per capire. A lei, che “fill’e anima” lo è stata, questa società fatta di famiglie-monadi che si cullano in una retorica stucchevole e programmano persino la propria fine, davvero non piace.

VITA: Cominciamo dalle parole. Che cosa sono i “fillus de anima”? Bambini in affido?

MICHELA MURGIA: È una situazione differente per logica e per contesto. La logica dell’affido è: sottrazione alla famiglia d’origine e addizione a una nuova famiglia. Qui abbiamo una moltiplicazione. La pratica dei “fill’e anima” non sorge in una situazione di conflittualità. Il termine stesso fa sottintendere che ci sia una relazione preesistente alla domanda, che le due famiglie già si frequentino e che il bambino abbia una conoscenza diretta della persona che “lo chiede in figlio”. Ed ecco un altro elemento distintivo: la volontarietà. Tutti devono essere d’accordo e il bambino stesso, quasi sempre in un’età tra i 10 e i 14 anni, deve dare il suo consenso. Direi che i “fill’e anima” sono gli unici a cui viene chiesto di nascere. La comunità locale sostiene e certifica questo passaggio di patria potestà che però non recide i legami di sangue. Non è un meccanismo facile da capire, perché a noi oggi manca il forte contesto relazionale di co-genitorialità che era proprio delle piccole comunità rurali, dove la solidarietà era l’unica forma di stato sociale possibile. Le cose che per noi oggi sono inaccettabili perché ce le aspettiamo dai servizi sociali, allora le faceva il vicinato, lo stretto parentado.

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