Famiglia

Nascere clandestini

In Italia nascono 3mila bimbi l'anno da mamme senza permesso di soggiorno

di Maurizio Regosa

Anche prima delll’approvazione del pacchetto sicurezza, nascere da genitori senza il permesso di soggiorno voleva dire affrontare un destino difficile. Come Vita ha documentato nel servizio pubblicato sul numero 24 (26 giugno 2009) alle pagine 4 e 5. Servizio di Chiara Cantoni e Maurizio Regosa

Senza lo straordinario coraggio di sua madre, i grandi occhi scuri di Lorenzo non mi fisserebbero incuriositi. Lei è una ragazzona di 30 anni, migrante e disoccupata. È arrivata in Italia via mare, incinta di quattro mesi. «Ma devo ancora raccontare quella storia?», mi chiede nel suo francese un po’ masticato. «Sono nata in Nigeria, poi con la famiglia mi sono trasferita in Costa d’Avorio, ad Abidjan. Lì ho conosciuto mio marito. Ci siamo sposati e siamo andati a vivere in Nigeria». «Un giorno un amico di mio marito viene da me», prosegue, «e mi porta in una strada per mostrarmi il cadavere del mio uomo. Aveva 35 anni». È il giugno dello scorso anno. «Mi chiama mia suocera», va avanti, «mi dà dei soldi, dice che devo andarmene. Parto». Il tragitto è sempre quello. La traversata del deserto, la Libia, il barcone. «Due giorni in mare e siamo arrivati a Lampedusa. Eravamo in 25». Lei questo bambino lo voleva: «Ho avuto un altro figlio. È morto», spiega senza dire perché. Ce n’è bisogno? In Italia le cose sono andate diversamente. Lorenzo ora ha cinque mesi. «Non ho paura. Sono solo preoccupata di non avere denaro per mantenere il mio bambino. Viviamo qui a Roma, con le suore. Ma non c’è lavoro». Ha avuto un permesso di soggiorno per maternità che scadrà fra tre mesi. Ha fatto richiesta di asilo politico. Sa che è difficile, ma è tenace. Ha già fatto il volantinaggio, la donna delle pulizie. «Daniela (la mediatrice culturale, ndr) mi manda a scuola per imparare l’italiano, così sarà più facile trovare lavoro», spiega.

Daniel, sempre in silenzio
Nella stanza in cui ci incontriamo, Daniel – cinque vivacissimi anni – non sta mai fermo, ma nessun suono esce dalla sua bocca. Non una parola. Il perché lo spiega sua madre: da piccolo ha avuto la meningite. Il silenzio è un’eredità di quella stagione nera. Che è poi il motivo per cui lei e il marito, boliviani, hanno scelto di affidare gli altri quattro figli e venire in Italia. È arrivata prima lei, nel 2006. «Ho trovato lavoro in una famiglia. Mi occupavo dei bambini. Certo, in nero. Brutta esperienza: non mi facevano mangiare, non potevo fare la doccia. Poi è arrivata l’estate». Ovvero il mese in Sardegna per l’italiana e i suoi; la disoccupazione per Maria. La sistemano presso una anziana: 700 euro – sempre in nero – senza poter ricevere in casa marito e figlio, nel frattempo giunti a Roma. «Ci incontravamo a 100 metri dal palazzo. Era dura. Ma senza quel lavoro, non saremmo riusciti a campare». Perché è papà Riccardo (due lauree, un passato nello staff del viceministro boliviano dell’agricoltura) che si occupa di Daniel. L’equilibrio si rompe quando il bambino ha una ricaduta e il padre si ammala di tubercolosi. Lei lascia la signora per prendersi cura del marito ricoverato e del figlio. «Quando lui si è ammalato è stato il momento più duro. Un isolamento anche fisico». Riccardo guarisce, arriva il 2008. Vivono separati, lei in un centro d’accoglienza, lui in un altro. Ma riescono a riprendersi. Oggi – con un permesso di soggiorno per curare Daniel – Riccardo lavora come badante, Maria abita con il figlio presso una famiglia dove fa la colf. Nemmeno con il permesso sono riusciti ad avere un contratto («è troppo costoso…»). «Con questa nuova legge abbiamo timore anche a farci curare», spiega Maria, e racconta di una sorella collaboratrice domestica; arrivata in Italia con una figlia di 7 anni, due mesi fa ha dato alla luce un’altra bimba. «La sua idea era partorire in casa. Aveva paura che le togliessero la figlia. Quando si sono rotte le acque, abbiamo chiamato noi l’ambulanza. “Sarà quel che Dio vorrà”, ci siamo detti». È andata bene.


Un imprevisto chiamato Cristian
Due settimane di viaggio, su e giù da treni, furgoni, bus, quasi senza toccare cibo, dormendo appena, in attesa del prossimo “traghettatore” verso il prossimo confine: gli occhi sbarrati e la paura alle calcagna. Helena, 25 anni, moldava, ha conosciuto le vie dell’immigrazione clandestina nel 2004, sulle rotte controllate da clan malavitosi. «Tremila euro l’anticipo per il viaggio, da restituire con interessi del 20%. Una follia». Ma la chimera di un lavoro è un movente troppo forte e, a due mesi dal matrimonio, l’allora 20enne fa armi e bagagli: destinazione Roma, casa di una zia. Però l’impiego si rivela un’illusione: «Decido di tentare a Milano. Trovo un posto come badante e, finalmente, mi ricongiungo a mio marito: altri 3mila euro». Per lui il lavoro non arriva: i soldi mancano e i debiti abbondano. «Ma tornare in Moldavia dai creditori è un suicidio. Tanto vale sperare per il meglio». Invece, arriva l’imprevisto, sotto forma di cicogna. «Taccio la gravidanza per non perdere il lavoro. I clandestini moldavi mi diffidano dall’andare in ospedale, perciò mi impongo: niente visite né ecografie». Neppure quando perdite e dolori le richiederebbero. «La figlia dell’anziana che accudisco mi convince a cercare il Centro di solidarietà San Martino. Un’operatrice mi aiuta a ottenere il permesso di soggiorno per cure mediche». Insieme all’ecografia arriva anche l’ennesima doccia fredda: «I bimbi erano due, uno dei quali espulso con aborto spontaneo. Il secondo è da tenere sotto controllo, la gravidanza è a rischio e richiede riposo. Proprio ciò che non posso permettermi». Helena salta le visite e continua a lavorare. Ma qualcosa non va. A un mese dal parto, al nascituro è diagnosticata una grave idrocefalia. «Mi dicono che partorirò un figlio morto, nel migliore dei casi disabile al 100%. Altra doccia di panico. Quando attaccano le doglie vado in ospedale con un asciugamano fra le mani, rassegnata a tornare a casa col grembo e il cuore vuoti». Ma la ginecologa non si dà per vinta e, quando il bimbo nasce vivo, dispone il trasferimento all’Istituto Carlo Besta. «A sei giorni mio figlio subisce il primo di una serie di interventi. Tutti riusciti. Oggi Cristian è un bimbo bello e sano». Alla fine Helena, dopo un permesso per cure mediche, rientra nei flussi del 2007 e ottiene il nulla osta per lavoro.

STIME DIFFICILI

Quanti sono i bambini figli di mamme clandestine? Non si sa con certezza. Nel 2008 sono nati in Italia 576mila bimbi, il 15,3% dei quali genericamente da madre non italiana. Le straniere “medicalizzano” meno la maternità (secondo Save the Children, l’88,5% di loro fa una visita nel primo trimestre di gestazione contro il 94,6% delle italiane) e si rivolgono prevalentemente al pubblico (il 57,6%, contro il 16,5% delle italiane), ma sui bimbi nati da clandestine non c’è certezza. Per Salvatore Geraci, presidente della Società italiana di medicina dell’immigrazione, «nel 2007 ci sono stati in Italia tremila parti in queste condizioni». Il Naga di Milano, per esempio, è entrato in contatto – sempre nel 2008 – con 118 clandestine incinte (erano 158 nel 2007).

VENIRE ALLA LUCE E TROVARSI NEL BUIO
Pacchetto Sicurezza, tra le altre novità, introduce per i migranti l’obbligo di esibire il permesso di soggiorno anche per registrare i figli all’anagrafe. Si cancellerà in questo modo l’eccezione introdotta dal decreto legislativo del 1998 che prevedeva tale obbligo escludendo però il caso di «atti di stato  civile» o «l’accesso a pubblici servizi».

Un’attesa difficile
«Una donna incinta non si può espellere», premette Caterina Boca, avvocato della Caritas romana: «Ha diritto a un permesso di soggiorno “per cure mediche” dal terzo mese di gravidanza». Si tratta però di un diritto «esigibile troppo spesso solo a parole». E sì che in teoria sarebbe semplice: la futura mamma va al consultorio, si fa visitare e riceve un certificato con la data presunta del parto, con cui può chiedere un permesso di 6 mesi (cui si aggiungono altri 6 mesi, dopo la nascita del bambino). «Nel frattempo, secondo le leggi vigenti», aggiunge l’algerina Laurence Salé, mediatrice culturale dell’ospedale San Gallicano, «si può recare in ospedale per qualsiasi controllo e gode dell’anonimato». Sarebbe un percorso lineare, non fosse intralciato da frequenti barriere. La prima è connessa al documento di identità. «Ci sarebbe la possibilità di richiedere un passaporto», prosegue Boca, «ma i consolati stranieri sono reticenti a rilasciarlo a chi è entrato irregolarmente». Se non si può essere identificati, niente permesso, e niente tesserino sanitario come temporaneamente residente. Come non bastasse, la Questura chiede una dichiarazione di ospitalità del proprietario o affittuario della casa in cui la donna intende abitare nell’attesa. Non previsto il caso, non raro, che il contratto sia in nero.

Lieto evento?
Conclusa la gestazione, le difficoltà non diminuiscono. Anzi. Se la puerpera non ha documenti, per la dichiarazione di nascita «deve andare di persona in Comune, accompagnata da due testimoni che ne attestino l’identità», spiega Maria Buondonno della clinica Mangiagalli di Milano. Ma ecco un altro intoppo: «Il permesso per cure mediche non consente di lavorare», aggiunge Anna Chiovenda, sempre della Mangiagalli, «e non può essere convertito in un altro tipo di permesso». Ecco perché «l’80% delle irregolari», conclude Pietro Massarotto, presidente del Naga, «rinuncia a chiedere il beneficio, cui, se la coppia è sposata, può aspirare anche il padre, come ha affermato la Corte costituzionale».


La paura del futuro
Diritti già ora nella pratica negati, si diceva. Che succede con il Pacchetto Sicurezza? Molti osservatori temono che allontanerà le clandestine incinte dalle strutture sanitarie. Sta già succedendo. Secondo il rapporto di Save the Children, gli accessi degli irregolari agli ambulatori sono andati diminuendo mano a mano che si proclamava la tolleranza zero. Meno 50% a Pordenone. Meno 30% a Firenze, Palermo, Roma, Bolzano e Bari. «L’incertezza ha scoraggiato già nei mesi passati il ricorso ai servizi sanitari», commenta Geraci, cui fa eco Oliviero Forti, responsabile Ufficio
immigrazione Caritas Italiana: «C’è una scarsissima informazione e cresce la paura». Se ne capiscono i motivi. Certo, alla fine per il personale medico non è stato abolito il divieto di segnalazione dei clandestini. Ma sarà sufficiente? «Anche se i clinici non intendono denunciare i loro pazienti», afferma Massarotto, «diverso è il discorso per i pubblici ufficiali, obbligati a notificare il reato di clandestinità. E pubblico ufficiale è, nell’esercizio delle sue funzioni, anche un impiegato comunale». L’esempio non è casuale. Il disegno di legge prevede che solo esibendo il permesso di soggiorno sarà possibile iscrivere i neonati all’anagrafe. Così se, temendo l’espulsione, i genitori non denunceranno la loro nascita, migliaia di bambini venendo alla luce precipiteranno nell’ombra.

L’INTERVISTA
«Non ci sono cambiamenti. Per le donne che partoriscono in condizioni di clandestinità si continua a fare riferimento alla legislazione vigente», spiega Barbara Saltamartini, responsabile delle Pari opportunità del Pdl.

VITA: Dunque il permesso di soggiorno continuerà a non essere convertibile?
BARBARA SALTAMARTINI: Finiti i sei mesi, le persone che si trovano in Italia clandestinamente devono essere rimpatriate e solo in un secondo momento potranno eventualmente tornare utilizzando la prassi già in vigore, a prescindere dal Pacchetto Sicurezza.
VITA: E il minore?
SALTAMARTINI: Abbiamo inteso tutelare proprio il bambino, che non acquisisce la clandestinità. Verrà invece regolarmente registrato in Italia e, in quanto nato sul nostro territorio, sarà dotato di documenti italiani. Si tratta di una scelta precisa a difesa di chi non si può ancora difendere. Certo la cosa migliore sarebbe che i genitori non debbano entrare in Italia
clandestinamente.
VITA: E i medici-spia?
SALTAMARTINI: Quella è una battaglia che abbiamo vinto. Sarebbe stata una cosa indecente. I bambini frequentano giustamente le nostre scuole, secondo un principio di integrazione. Ed è nell’interesse collettivo che siano sani.
VITA: Non si poteva fare di più?
SALTAMARTINI: Se avessi avuto la possibilità avrei rivisto moltissime cose. Non le nascondo che abbiamo cercato di ottenere con il massimo sforzo i risultati che potevamo raggiungere, evitando di incorrere in spaccature politiche talmente gravi che ci avrebbero impedito di regolare il tema dell’immigrazione. D’altra parte è inutile nascondere che in Italia si sentiva e si sente tuttora il grave problema dell’immigrazione clandestina, specie quando è legata a fenomeni di criminalità organizzata. Abbiamo voluto colpire innanzitutto questa.

IL COMMENTO
I minori, cartina di tornasole dell’accoglienza di un paese
di Barbara Ghiringhelli, Area migrazione e cooperazione – Focsiv

Conosciamo già cosa significa mettere madri e figli in condizione di irregolarità, ancora di più se tale  condizione è causa di una totale negazione dell’uomo, nel momento in cui alla persona vengono negati quei diritti di base, universali e indivisibili per tutti. La paura a rivolgersi a scuole, agli ospedali, ai pubblici uffici, il rischio per i minori di nascere invisibili, senza traccia nei registri anagrafici. Costi economici, sociali e umani elevatissimi e, in prospettiva, instabilità sociale. Perché, come sostenuto da chi affronta le disuguaglianze tra popoli nel mondo, la giustizia è la migliore via per garantire sicurezza e pace per tutti. E nello specifico, la negazione di diritti ai bambini risulta essere una grave ipoteca per il futuro. Se il futuro sono le nuove generazioni, con passaporto italiano o di altri Paesi, il modo in cui queste entreranno a far parte della società che le accoglie è fondamentale per lo sviluppo della società stessa. E se i minori stranieri rappresentano la cartina di tornasole attraverso cui rilevare il grado d’integrazione degli immigrati in Italia, e la capacità di accoglienza della nostra società, fanno pensare quelle proposte che non riconoscono i diritti dell’infanzia che, nascendo straniera o irregolare, perde addirittura il diritto a essere riconosciuta bambina. L’Italia è un Paese mutlietnico, nonostante ci sia chi dice il contrario. Sono sbagliati gli atteggiamenti ideologici di apertura incondizionata, senza regole, come sono fuori luogo e fuori tempo quelli che negano la necessità, il dovere e l’opportunità dell’accoglienza, nella convinzione che muri e respingimenti possano garantirci da eventuali flussi. È necessaria quindi una politica relativa agli ingressi, che dia regole, contempli possibilità realistiche e tenga fede agli impegni assunti a livello internazionale. È importante nel contempo agire sul fronte del passaggio alla cittadinanza – riducendo i tempi di naturalizzazione e snellendone le procedure – perché quelle che servono sono azioni strategiche capaci di garantire, nel segno dell’accoglienza, i diritti dell’uomo.


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