Famiglia

Pubblico, privato… garantito?

Dopo il caso Pistoia, quali controlli sulla qualità delle strutture per l'infanzia

di Benedetta Verrini

Il Piano servizi alla prima infanzia, lanciato nel 2007, ha permesso alle Regioni di creare strutture publiche e private per i piccoli. Ma le regole sono diversissime, con ampie zone grigie.
Il privato, profit e non profit, rivendica controlli rigorosi. Ma l’esperto avverte: chi deve guadagnare spesso risparmia sul personale
Con un accenno che sa quasi di preveggenza, l’ultimo rapporto sugli asili nido italiani realizzato dall’Istituto degli Innocenti raccomandava azioni di «vigilanza e verifica della permanenza dei requisiti in tutti i servizi autorizzati», «anche in considerazione del fatto che i Comuni saranno sempre più interessati alla gestione indiretta e la presenza dei privati in questo campo aumenterà notevolmente». Aldo Fortunati, direttore dell’Area Documentazione ricerca e formazione dell’istituto fiorentino e uno dei massimi esperti in tema di sviluppo dei servizi alla prima infanzia, sulla vicenda delle violenze nell’asilo nido Cip e Ciop di Pistoia (privato e autorizzato dal Comune), sottolinea che «non c’è azione di vigilanza che possa salvaguardarci da atti così folli».
Il Piano straordinario sullo sviluppo dei servizi educativi alla prima infanzia, lanciato con la Finanziaria del 2007 per raggiungere lo standard di accoglienza del 33% entro il 2010 (la media italiana del 2008 è il 23%), ha dato il via, in ambito regionale, a un’intensa attività legislativa di regolamentazione dell’offerta. Ma attualmente il quadro è molto fluido, con profonde differenze tra Nord e Sud del Paese. Ci sono asili a titolarità pubblica, privata non profit, privata totalmente profit (imprenditori singoli o franchising). Ci sono servizi flessibili come i nidi familiari, le mamme accoglienti, le tagesmutter, i nidi condominiali, i centri gioco, i centri famiglia. Ogni Regione però ha una propria normativa, che si ferma alla semplice autorizzazione o arriva fino ad accreditamento e convenzione.

Gli anelli deboli
Le zone grigie stanno nella qualità della vigilanza (decisamente blanda se è solo documentale) e nella diversità di standard: in Lombardia e in Veneto, ad esempio, non servono particolari professionalità per aprire un nido familiare, basta un corso di formazione. Altro anello debole sono i contratti del personale: «I titoli di studio, la contrattualizzazione e la mansione ci informano del livello di qualità del servizio di chi opera accanto ai bambini», dice Fortunati. In sei Regioni italiane (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Umbria e Calabria) gli asili nido privati superano il 60% del totale, in Calabria si tocca quota 84%. Nel Lazio e in Liguria l’incidenza del privato è pari a quella del pubblico, mentre nelle altre regioni il privato non supera il 40%.
Se si parla di non profit è impossibile non interpellare il Consorzio Pan, che dal 2004 ha creato per affiliazione circa 280 tra asili nido e servizi educativi. «Il nostro sistema di valutazione è estremamente selettivo», spiega Claudia Fiaschi, vicepresidente del consorzio. Oltre a dimostrare qualità in tutti gli aspetti, un asilo a marchio Pan deve anche stare in piedi economicamente. Ma «resto convinta che difficilmente questo servizio può essere gestito da privati con interessi di lucro. In questo settore l’80% dei costi di produzione sono rappresentati dal personale. È evidente che se li comprimi incidi sulla qualità del servizio».
Nel panorama dei privati for profit una delle sigle più forti e radicate è Baby World, un franchising che vanta 80 asili nido, soprattutto nelle regioni del Nord. C’è un fee d’ingresso (10.500 euro più Iva), le spese per lo spazio, gli arredi e i giochi (23mila euro più Iva), poi le royalties (a partire dal secondo anno, in percentuale sul numero di bambini). La casa madre garantisce un pacchetto chiavi in mano per le autorizzazioni, la selezione del personale, la formazione, il supporto costante dell’équipe pedagogica. Poi, camminare con le proprie gambe non è semplice: «In quest’anno di crisi abbiamo avuto difficoltà, ben tre maternità, abbiamo dovuto ridurre il numero di bambini da 70 a 30», racconta Bruna Palladino, titolare di un nido Baby World affiliato a Napoli.
E tra i privati c’è anche chi punta alle strutture più fluide, come i micronidi familiari: «Diamo fiducia all’esperienza delle mamme», dice Rita Zecchel, fondatrice di un’altra grande sigla privata, HappyChild. La società (che ha creato anche un’associazione educativa e una fondazione) ha costruito un manuale di consulenza giuridica, pedagogica ed economica per le donne che vogliono aprire a casa un nido familiare. HappyChild garantisce, al costo di 1.200 euro, un kit di formazione con supervisione allo start up. «Ne abbiamo assistite a centinaia», dice Zecchel. «E anche su di loro ci sono controlli. A cominciare da quello dei genitori».

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