Salute

Immigrati leucemici salvati dalle donne

Meno della metà degli ammalati ha in famiglia un donatore compatibile. Ma nei registri internazionali sono iscritti solo europei e nordamericani.

di Paolo Giovannelli

Le donne immigrate salveranno i loro connazionali affetti dalla leucemia. E chissà quanti italiani colpiti da questa grave malattia del sangue. Come? Donando, un attimo dopo il parto, il sangue del loro cordone ombelicale, ricco delle cellule necessarie proprio per il trapianto contro la leucemia.
È all?ospedale romano ?San Pietro? Fatebenefratelli che i medici del reparto ematologia, in collaborazione con l?ong Afmal, hanno avviato un programma di sensibilizzazione rivolto alle donne provenienti dai Paesi del Terzo mondo e dalle aree di crisi. Intanto, dall?Europa, giungono buone notizie: alla banca del sangue di Londra, il numero di donazioni del sangue del cordone ombelicale effettuate da stranieri è salito, in poco tempo, al 40%, contro il 4% dei registri tradizionali.
La dottoressa Maria Cristina Tirindelli, specialista in ematologia all?ospedale San Pietro, spiega l?importanza del coinvolgimento delle donne immigrate: «Soltanto il 40% dei pazienti trova nella propria famiglia un donatore compatibile. Per il 60-70% è invece necessario ricorrere ai donatori volontari iscritti nei registri internazionali. Ma, attualmente, nei registri internazionali sono quasi esclusivamente rappresentati donatori volontari appartenenti alla razza caucasica, cioè nordamericana ed europea, mentre non sono rappresentati donatori provenienti dai Paesi del cosiddetto Terzo mondo. Ciò costituisce un?enorme difficoltà per i pazienti stranieri, che non riescono a reperire donatori compatibili e quindi non possono ricevere il trapianto. Da qui la necessità che anche le donne di quei Paesi inizino a donare il sangue del proprio cordone ombelicale. Finora, da noi, lo hanno fatto slave e filippine».
Quanto le donne straniere in Italia sono informate sulla possibilità di donare il sangue del cordone ombelicale?
«Pochissimo. Anche perché le stesse donne italiane hanno iniziato solo di recente a conoscerla e a praticarla. Nei Paesi meno sviluppati l?argomento è proprio sconosciuto e il fatto di porgere ora anche alle donne immigrate in Italia questo genere di informazione, significa offrire loro una forma di pari opportunità. Sottolineo che tale programma parte proprio dal ?San Pietro? perché, nel 1997, nella nostra divisione di ostetricia hanno partorito circa 1700 donne, di cui ben il 10% appartenenti a popolazioni extracomunitarie».
Come avviene la donazione del sangue del cordone ombelicale?
«Dopo che la partoriente ha dato la sua disponibilità alla donazione, la raccolta del sangue del cordone ombelicale viene effettuata subito dopo il parto. L?operazione non interferisce minimamente con lo svolgimento regolare del parto, senza nuocere né alla mamma né al bambino, poiché avviene nel momento in cui il cordone ombelicale è stato già reciso. Mentre il bambino è già accudito, si procede alla raccolta del sangue senza che la donna senta assolutamente nessun dolore. Il sangue viene raccolto in una piccola sacca e trasportato nei laboratori di ricerca e nei centri di ematologia dove viene poi studiato e criopreservato, ossia conservato a bassissime temperature».
Soddisfatto del lavoro svolto il segretario generale dell?Afmal, l?Associazione ?Con i Fatebenefratelli per i malati lontani?, Pierluigi Casa: «Questa sensibilizzazione delle donne immigrate alla donazione del sangue del cordone ombelicale», afferma, «è un altro esempio di come elevate professionalità, come quelle dei sanitari del ?San Pietro?, se avvicinate e coordinate dal volontariato, possono servire efficacemente le fasce socialmente più deboli. Proprio come avviene nei nostri progetti di sviluppo all?estero».
Per informazioni: Afmal, via Cassia 600, 00189 Roma; tel.. 06/33253413.

In difesa delle donne kenyane

La Federazione internazionale delle donne avvocato (Fida), ong che punta a rafforzare lo status giuridico delle donne, ha avviato il monitoraggio dei diritti e della difesa delle donne in Kenya. L?organizzazione ha anche un gruppo di sostegno per le donne vittime di violenza, il primo del genere nel Paese africano. In Italia, a far da cassa di risonanza alle motivazioni e ai risultati di tale lavoro, è l?associazione di volontariato Amani che, sul suo bollettino mensile Africanews, lancia l?allarme: nella società patriarcale keniana i casi di violenza domestica sono in aumento, anche se difficilmente vengono denunciati: l?ultimo dato disponibile, relativo alla seconda metà del 1996, è di 3674 donne maltrattate. Le forme di violenza compiute, in gran parte esercitate dai mariti, variano dal ?semplice? pugno, alle bruciature e bastonate fino alle mutilazioni di parti del corpo. Inconsistenti i motivi che scatenano la violenza: si va dal ritardo del cibo in tavola all?aver bruciato una pannocchia di mais. Per chi la combina più grossa, come la donna infedele, c?è solo la morte.
Taglia corto la presidente della Fida, Nansy Baraza: «I tempi sono ormai maturi», dichiara, «per una criminalizzazione delle violenze domestiche in ambito familiare da parte del governo keniano, che ancor oggi le considera giusto alla stregua di ?aggressioni comuni?».

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