Famiglia

Un alveare di solidarietà nel cuore di Milano

Il Centro multiservizi per il disagio minorile e familiare

di Carlotta Jesi

Comunità residenziali, centro di formazione per immigrati, doposcuola per ragazzi stranieri e altro ancora. L’ex asilo di via Calatafimi 10 è diventato
un luogo di accoglienza intelligente. Gestito in rete, dentro e fuori
La prima cosa che non torna, dell’Istituto Beata Vergine Addolorata (iBVA) è l’aria. Leggera, se consideri che, solo nel primo semestre del 2009, nelle sue tre comunità residenziali hanno vissuto otto mamme italiane e straniere tra i 25 e i 45 anni in stato di bisogno e 35 bambini tra i 2 e i 14 anni vittime di violenza fisica o psicologica. E gioiosa, se ci aggiungi le nove mamme con 10 piccoli provenienti da comunità ospitate nello stesso periodo all’interno degli “appartamenti per l’autonomia”.
Un’aria strana. Satura di serenità là dove ti aspetti di respirare disagio. E tranquilla se pensi all’incredibile mix di inquilini che si incrociano nella palazzina di via Calatafimi 10, nel cuore di Milano: oltre a mamme e bimbi in difficoltà, ci sono adulti stranieri di 42 etnie che studiano nel Centro Italiano per tutti (358 l’anno scorso), le 19 volontarie italiane che si prendono cura dei loro bimbi mentre sono a lezione, i ragazzi stranieri del doposcuola e, ancora, i bambini dai 9 ai 36 mesi dell’asilo nido PICCOLI & grandi della cooperativa Spazio Pensiero, i giornalisti e gli editori della onlus Insieme nelle terre di mezzo, i ragazzi dai 18 ai 21 anni che la cooperativa sociale Arimo accompagna all’autonomia e il personale del Centro per il bambino maltrattato (CbM) che ha trasferito qui la sua sede.

Il modello ATS
Un alveare, attivo 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno, che l’architetto Luigi Caccia Dominioni forse immaginava già a metà del secolo scorso quando ridisegnò la sede dell’associazione, rasa al suolo durante la seconda guerra mondiale, con tanti mattoncini marroni a nido d’ape. I suoi direttori, Mauro Mogno e Marina Gualandi, preferiscono chiamarlo Centro multiservizi a sostegno del disagio minorile e familiare. E come riescano a gestirlo, con un bilancio di due milioni di euro l’anno, con costi amministrativi pari al 10% e con la porta dei loro uffici aperta a chiunque abbia bisogno di fare due chiacchiere, è il secondo mistero di iBVA.
I direttori lo svelano per parole chiave. Innanzitutto questa: «Fare rete», dentro e fuori. Dentro, significa creare servizi che possono collaborare tra loro: nel primo semestre del 2009, due mamme con bambini accolte nelle comunità residenziali sono state “promosse” negli alloggi per l’autonomia, in un percorso verso la totale indipendenza. Fare rete con l’esterno è, invece, la scelta fatta da iBVA, che progetta e gestisce in prima persona le iniziative dedicate ai cittadini stranieri. Nasce così l’Associazione temporanea di scopo con il Centro per il bambino maltrattato e la cura della crisi famigliare (CbM) per la gestione delle tre comunità residenziali con posti di pronto intervento dedicati alle mamme e ai bambini e dei nove alloggi per l’autonomia. E in questa direzione vanno anche la presenza del nido, di Arimo e di Terre di mezzo, con spazi in comodato d’uso gratuito.
200 anni di storia
«Una macchina sperimentale», la definisce Mogno, «in cui ogni realtà lavora a sostegno del disagio mantenendo la propria identità». Con il suo management, il suo fundraising, le sue regole etiche. Difficile immaginare come far coabitare tante anime? Non se alle spalle hai 200 anni di storia, con il cambiamento e la coesistenza degli opposti iscritti nel Dna. Nata nel 1801, iBVA affida l’erogazione dei suoi servizi alle suore di Maria Bambina fino agli anni 90 del Novecento, quando viene depublicizzata e gli operatori, come già gli amministratori, diventano laici. Cambiando continuamente pelle – convitto, semiconvitto e scuola – fino a scegliere, nel 2002, la formula progettuale della collaborazione con altri enti non profit attivi nel sostegno alla famiglia. Unica costante, non abbandonare la sede di via Calatafimi 10. Anche se traslocare, trasformandola in appartamenti da affittare avrebbe significato un terzo polmone d’ossigeno economico per le attività di iBVA.
Vedere dalla finestra il campanile di Sant’Eustorgio, o aprire una porta sul parco delle Basiliche, spiegano la scelta. «Siamo qui per non chiuderci sul disagio, per esporre gli ospiti e gli utenti dei nostri servizi alle opportunità e al bello. E anche per ricordare che disagio e bisogno esistono anche nel centro di Milano».

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