Cultura

Malato, e mai così grande

Dopo un lungo silenzio il campione dei pesi massimi racconta a El Pais come il morbo di Parkinson ha dato un nuovo senso alla sua vita.Alì scende dal ring e scopre che tutto ha uno scopo preciso.

di Carlotta Jesi

?Signori e signore, ecco a voi il più grande pugile di tutti i tempi?. Il suo corpo sembra lievitare, il campione si alza lentamente sulle punte. Pronto per scagliarsi contro l?avversario, proprio come un ghepardo che punta la sua preda. Ma qui non siamo sul ring. La missione di Muhammad Alì, e la sua grandezza, adesso è un?altra. Calmo, lo sguardo fisso davanti a sé, dopo un lungo silenzio il campione dei pesi massimi, si racconta al giornalista di ?El Pais? Peter Richmond. Parla della fede, della vita, e anche della sua malattia. Il morbo di Parkinson. E, come per rassicurare il suo interlocutore disorientamento, quasi imbarazzato nel vedere le mani che una volta spaventavano il mondo tremare come un fuscello, Alì dice: «Tutto ha uno scopo preciso, non cambierei nulla della mia vita, neppure questa malattia». Parla con difficoltà, perché il Parkinson ha trasformato il suo viso in una rigida maschera. Ma non ha perso la sua energia e la sua forza. Proprio come la natura può racchiudere una grande quantità di carbone in un diamante minuto, la malattia che gli ha immobilizzato il corpo fa risplendere l?anima e l?essenza di Alì. È davvero lui l?uomo che lottò contro lo sfruttamento e i soprusi dei neri, che rifiutò di andare in Vietnam a combattere per una causa e una guerra in cui non credeva, che con le sue parole ed il suo esempio divenne l?idolo di tutti coloro che, nel mondo, non accettavano il razzismo e l?ingiustizia? Sì, è lui, il solo pugile che si è trasformato in profeta. Il primo cambiamento avviene dopo i Giochi Olimpici di Roma; al campione non piace lo sguardo invidioso di certi presunti ammiratori, capisce di essere una specie di attrazione per le autorità che lo invitano alle manifestazioni come un animale da esibire. Non si riconosce nelle descrizioni fatte sui giornali. La gloria lo lascia perplesso. Con un gesto simbolico getta in un fiume la medaglia olimpica e inizia la sua trasformazione: Cassius Clay diventa Muhammad Alì, abbraccia la fede islamica, diventa più volte campione del mondo. Poi viene la malattia, che secondo la moglie è ereditaria ma per altri fu causata dall?attività sportiva. Poco importa, perché il campione la considera un preciso volere di Allah. «Lo avevo servito per anni usando la mia notorietà per diffondere il suo messaggio. Ma Allah sapeva che stavo invecchiando e che, se avessi cominciato a perdere incontri, non gli sarei stato più utile come messaggero». E così Allah gli preparò un piano: «Se le parole del pugile potevano smuovere montagne, impedì loro di essere pronunciate; se i suoi pugni colpivano con precisione gli avversari e le ingiustizie del mondo, rese le sue mani tanto deboli da sollevare con difficoltà un pezzo di pane. In questo modo Allah ritrovò il suo servitore. Dieci volte più forte di prima perché, nella malattia, Alì diventa ancora più grande». Ora si dedica soprattutto ad aiutare gli altri. Come lo scorso autunno, quando una suora cattolica impegnata a proteggere i bambini della Liberia scrisse al campione perché aveva bisogno di aiuto e il mese successivo lo trovò alla porta della sua missione carico di cibo. Ha lottato a lungo per i diritti del popolo nero, ma oggi il pugile è soprattutto un uomo che vive della sua fede. A chi non crede in Dio, Alì risponde semplicemente: «Credi che il sole si sia fatto da solo? E questa sedia, questo tavolo? Tutto è stato fatto dall?Essere Supremo». Viene da credergli, perché lui stesso sembra incarnare questa regola. Appesantito dalla malattia, quasi cieco e immobilizzato non assomiglia al pugile agile che fu, eppure chi lo avvicina ravvisa in lui qualcosa di superiore, di divino. «Anche al tempo dei suoi più gloriosi incontri», racconta Howard Bingham, il fotografo che ha seguito Alì fin da quando era uno sconosciuto ragazzotto del Kentucky, «nessuno riusciva a spiegarsi come riuscisse a far volare i suoi 90 chili. Ballava veloce sulle gambe, come un fantasma». Proprio come il giorno del suo massimo trionfo, quando a Manila sconfisse Frazier con la velocità, l?intelligenza e il cuore che dimostrava sul ring. Oggi rifiuta di combattere il morbo di Parkinson con le moderne attrezzature consigliategli dai medici. Nella sua casa, in Michigan, è stato costruito un vero e proprio ring con tanto di sacco di tela appeso al muro. Eppure, quando gli si chiede se ha nostalgia della boxe risponde «no». Quando gli si chiede se dobbiamo avere pietà per lui risponde «no». Parla di Allah e del Corano con gioia, come quando, prima di un incontro, profetizzava a quale round sarebbe caduto il suo avversario. Se Alì diceva che avrebbe sconfitto Cleveland Big Cat Williams alla quarta campanella, il pronostico si avverava. Lo chiamavano ?Il Matto di Louisville?. Oggi la sua profezia è questa: «Tutto ha uno scopo preciso ». Saranno i suoi occhi che brillano sul viso inespressivo, o forse la venerazione per il pugile più grande di tutti i tempi; sarà il titolo di campione dei pesi massimi, gli ideali per cui si è battuto oppure la sua fede. Resta il fatto che sotto i riflettori di uno stadio o bloccato su una sedia a rotelle, quest?uomo incredibile mantiene intatta la sua grandezza e la sua magia.


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