Formazione

Sogno di un clochard

Un ex sessantottino incontra Dante. Così Enzo Fontana continua la nostra serie di racconti sulla carità

di Enzo Fontana

A Trento, come in molte città italiane, Dante Alighieri ha lasciato il segno. In questo caso si tratta di un monumento alto 17 metri così divisi: tre zoccoli sovrapposti, con sculture ispirate ai tre regni dell?oltretomba, e, al sommo, la grande statua del poeta. Il bronzo lo rappresenta quasi secondo tradizione: il volto lungo, le mascelle grandi, il naso aquilino, le tempie cinte d?alloro. Una mano regge la Commedia all?altezza del cuore, l?altra si stende come quella di un santo protettore su Trento. Il monumento a Dante si trova di fronte alla stazione, circondato da aiuole e da alberi.
Com?è noto, le stazioni e dintorni sono il refugium peccatorum dei vagabondi. Un giorno di maggio due di questi si aggiravano per il giardino di Piazza Dante in cerca di una panchina libera. Uno sembrava ?il cavaliere dalla triste figura? e l?altro il suo scudiero, al ritorno dall?ennesima disavventura. Mancavano loro solo un ronzinante e un ciuccio. Il primo era un uomo sui 50 anni portati da randagio, e cioè male. Era allampanato, magro come un chiodo, lievemente strabico, il viso da martire, la barba spelacchiata, i capelli lunghi e grigi. Indossava un eschimo, nonostante fosse un bel giorno di primavera, che sembrava rubato ad uno spaventapasseri del ?68, tanto era logoro. Il secondo era più giovane, senza un pelo bianco. Aveva la forma di una botticella, considerato davanti, dietro o di fianco, il viso grassottello e gli occhi cerulei, un?aria bonacciona. I due erano abituali frequentatori del parco, dove trovavano sempre uno spazio vitale, ma quel giorno faticarono un po? prima di trovare un posto al sole, perché c?era più gente del solito. Infatti in un angolo della piazza c?era un baracchino della Lega con alcuni attivisti in camicia verde che raccoglievano una petizione, mentre un oratore con un altoparlante sbraitava contro i mendicanti, i barboni, i negri, gli arabi, per non parlare dei terroni, salvando del genere umano solo le genti padane e i cugini svizzeri. Non sembravano raccogliere un grande consenso popolare, ma tanto bastava ad attirare qualche curioso. Finalmente si liberò una panchina, proprio di fronte al monumento, e i due vagabondi la occuparono. Quello che sembrava Sancio Panza tirò fuori dalla bisaccia (un sacchetto di plastica) una bottiglia di vino già scolata per metà, del pane, qualche fettina di speck, un paio di mele, e apparecchiò il pranzo. Dopo aver detto ?buon appetito?, incominciò a mangiare e a bere. Invece quello che sembrava la reincarnazione di Don Chisciotte, già così ascetico, non dimostrava nessuna voglia di toccare cibo. Era disturbato dal gracchiare dell?altoparlante leghista. Lanciava occhiate furiose verso la manifestazione, e quando il disgusto gli fu intollerabile, preso da una specie di raptus impugnò la bottiglia e l?avrebbe lanciata contro il baracchino leghista, se il suo compagno non si fosse messo di mezzo, riafferandola:
«No, Antonio, non è una bottiglia molotov!»
Antonio oppose una debole resistenza, poi lasciò il vino tra le mani di chi lo sapeva apprezzare. Però disse con voce aspra:
«Ma tu, Cristiano, cosa facevi nel ?68?»
Cristiano, sul momento un po? disorientato, fece un rapido calcolo con le dita e poi rispose:
«Facevo l?elementari, su in paese. Mica facevo l?università, come te.»
«Ma non ti ribolle il sangue a sentire come quegli asini parlano dei meridionali?»
Cristiano scrollò le spalle e disse:
«Ma cosa stai ad ascoltarli, quei mona? Non te la prendere e mangia qualcosa, ché sei magro come uno scheletro».
Per comprendere meglio il senso di questo scambio di battute, mentre i due continuano l?uno a mangiare, l?altro a schifare il pranzo, sarà il caso di fare qualche cenno alle rispettive biografie. Cristiano veniva dalla Val di Non, ampia e soleggiata, in Trentino conosciuta come la valle delle mele. Era di famiglia poverissima e in valle era considerato una mela bacata, che non aveva voglia di lavorare e non avrebbe mai concluso niente nella vita. Per questo, giovanissimo se n?era andato a cercare fortuna, però incontrando sempre la sua avversaria, la scalogna più nera. E, come a voler confermare le sentenze di paese, si era ritrovato in mezzo a una strada, ai margini di Trento. Riposti i sogni nella bisaccia, si accontentava di vivere alla meno peggio, alla giornata. In questo dimostrava un certo senso pratico, insolito in un clochard, e un residuato d?astuzia, grazie alla sua mentalità contadina, riuscendo a provvedere alla sopravvivenza non solo di se stesso, ma anche del suo amico di strada.
Antonio invece per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato a sognare. Era un mezzo emigrato, nel senso che sua madre era venuta dal sud che lo teneva ancora nel pancione, prima della biblica migrazione. Il padre, ingegnere delle ferrovie, l?aveva conosciuta durante una trasferta di lavoro in ?bassa Italia?, come il Trentino chiamava il meridione. Natura aveva fatto il suo corso e la fanciulla si era ritrovata incinta d?un uomo di parola, nel senso che il futuro padre di Antonio aveva mantenuto quella di sposarla. Questo signore aveva educato il ragazzo ricordandogli sempre che, ai tempi del referendum tra monarchia e repubblica, lui aveva scelto i Savoia, non potendo scegliere la Casa d?Asburgo, che restava la sua preferita. Si immagini il trauma di un nostalgico dell?ordine antico, quando si accorse di aver cresciuto un figlio sovversivo. Perché tale divenne Antonio già dal primo anno del suo ingresso all?Università di Trento: un sovversivo, e nemmeno un marxista, ma un anarchico. Correva l?anno 1968, e Antonio lo perse tra occupazioni, assemblee e cortei, almeno secondo il giudizio paterno. Gli anni passarono, ma non i suoi ideali. Si spensero i fuochi della contestazione generale e si accesero quelli della guerriglia urbana, che Antonio evitò solo per un soffio, come tanti giovani. La maggior parte di questa generazione fu risucchiata nel buco nero dalla vita quotidiana. Molti si fecero una famiglia, come si dice, e misero la testa a posto. Ma la testa di Antonio rimaneva tra le nuvole e le illusioni della giovinezza, anche se ormai aveva trent?anni suonati. I più cinici tra i suoi ex amici ci scherzavano su, sostenendo che se ciascuno ha un orologio in capo, quello di Antonio doveva averglielo infranto la polizia il giorno che lo aveva manganellato. Di fatto, Antonio appariva sempre più strano, fino al giorno in cui cominciarono a definirlo ?uno strambo?. Il mondo, persino quello dei suoi ex compagni, lo emarginava, e lui, per risposta, aumentava le distanze. Degli amici più intimi della giovinezza, qualcuno era morto, come un?amica uccisa dalla polizia col marchio di terrorista. Un paio erano finiti nella droga (Antonio l?aveva sempre rifiutata con orrore). Alcuni però avevano conquistato feudi in quella stessa università che un tempo avevano contestato, e spesso con gli studenti erano più severi dei vecchi baroni, e soprattutto molto meno capaci. Uno degli ex amiconi di Antonio dirigeva un quotidiano nazionale, e un altro addirittura un?importante commissione parlamentare. Antonio non li giudicava, non aveva mai giudicato nessuno, a parte la società borghese. Antonio di casa se n?era andato sino dal lontano ?68. Ma finito il tempo delle comuni, delle occupazioni abusive, si era ritrovato senza un tetto e senza un?alternativa alla famiglia. Non li avrebbe più ritrovati. I suoi genitori da tempo avevano lasciato questo mondo, e i maligni dicevano che erano morti di crepacuore per via del figlio pazzo. L?ospitalità degli amici, come si è detto, non era durata a lungo. Poi Antonio aveva trovato solo sistemazioni di fortuna, dormitori, ospizi, quando andava bene, altrimenti era la strada. Aveva fatto cento lavori precari, ma ogni volta l?orgoglio gli impediva di continuare. Era stato di quelli che avevano rifiutato il lavoro salariato, e per questo non si era nemmeno laureato: come avrebbe potuto accettare ora lavoretti che gli venivano pagati in relazione alla sua condizione, ovvero una miseria? Questa la giustificazione che si dava per rassicurarsi di non essere uno scansafatiche. Comunque non aveva mai teso la mano per chiedere l?elemosina. E in qualche modo era sopravvissuto.
Dopo la colazione, Cristiano si alzò per andare alla ricerca di una sigaretta. Antonio lo seguì solo con lo sguardo, e vide che si fermava a parlare e a fumare con un altro vagabondo. Conoscendo le sue abitudini ciarliere, pensò che non sarebbe ritornato a sedersi tanto presto. Così si distese mezzo di fianco occupando tutta la panchina, con un braccio piegato a mo? di guanciale. Vedeva le magnolie in fiore, come bianche nubi attorno al bronzo di Dante. Chiuse gli occhi e ci mise l?altro braccio davanti, ma continuò a vedere il monumento che conosceva a memoria, in ogni particolare. Vedeva Minosse, il giudice infernale, con la coda due volte avvinghiata a una gamba. Sedeva su un drago, proteso in avanti, crucciato e pensoso, il mento appoggiato all?incavo di una mano, e pareva voler giudicare tutta la sua vita. Più in alto, nella seconda balza, Antonio vedeva tutta una scena del Purgatorio, con diverse anime di bronzo e il trovatore Sordello in ginocchio di fronte a Virgilio, e con un Dante simile a un discepolo curioso, che faceva capolino alle spalle della sua guida. Più in alto ancora vedeva gli angeli dell?Empireo e tra loro Beatrice. Infine, più in alto del Paradiso, il povero clochard vedeva il gigantesco Dante, dove lo avevano collocato i patrioti trentini.
«Dovresti essere almeno un po? curvetto», borbottava Antonio, «e non in quella posa da duce. E non ti pesa quel braccio che da cent?anni tieni alzato verso il Brennero?»
Ma a questo punto il clochard vide qualcosa di incredibile, persino a un visionario come lui: vide il braccio della statua che lentamente si abbassava. Antonio aprì gli occhi di scatto e con un balzo si mise a sedere: il braccio di Dante penzolava sempre. Allora Antonio sbattè le palpebre e si stropicciò gli occhi, ma il braccio continuava ad apparirgli abbassato. Antonio pensò di avere le traveggole. Si guardò attorno, ma la gente passava veloce sotto il monumento e nessuno alzava lo sguardo. Le sorprese per Antonio erano solo all?inizio, perché, dopo il braccio, vide che Dante muoveva le pupille, poi girava la faccia di bronzo, piano piano, da una parte e dall?altra, e corrugava la fronte. Tutta la statua si animava. E finalmente Dante schiuse le labbra:
«Quanto mi pesa, questo monumento!»
Antonio, esterrefatto, rimase in silenzio.
«Ma tu parli», disse poi, «e ti muovi!»
E Dante, che mai nessun artista immaginò sorridente, ad Antonio sorrise.
«Non è facile muoversi», gli disse, «e non è facile parlare con una lingua di bronzo.»
Se Dante si era sciolto, adesso era Antonio a sembrare un piccolo monumento al vagabondo ignoto. Immobile, guardava verso l?alto con gli occhi spalancati e non sapeva cosa dire. Intanto l?oratore leghista aveva smesso di arringare i trentini, e dall?altoparlante uscivano le note del Nabucco. Dante, infastidito, lanciò un?occhiata alla manifestazione, e Antonio notò con piacere il tono sprezzante con cui gli chiese:
«Ma cosa vogliono?»
«Vogliono che l?Italia sia divisa», rispose Antonio, «e in tre parti: il nord lo chiamerebbero Padania, il centro Etruria e il sud Regno di Napoli e delle due Sicilie».
«Ma sono pazzi?», disse Dante. «In questa piazza, nell?arco di cent?anni, ne ho visti passare di asini. Non bastavano quelli con la camicia nera? Adesso devo sopportare anche il raglio delle camicie verdi!»
Queste parole suonarono come una musica per le orecchie del vecchio rivoluzionario. A scuola non aveva amato Dante, come la stragrande maggioranza degli studenti, ma ora lo avrebbe abbracciato. Non osava chiamarlo ?compagno?, così scelse di rivolgergli un appellativo che non aveva usato più dalle elementari:
«Maestro, con molta franchezza ti avverto che la mia patria è il mondo intero e il mio regno la libertà. Però io protesto contro chi vorrebbe fare a pezzi lo stivale. Tu chiamavi l?Italia ?il giardino dell?Impero?, e sai quanto sangue ci volle per farla: giustamente ti indigni di fronte a questi che vorrebbero disfarla, con il pretesto che cinquant?anni di baratteria l?hanno trasformata in una cloaca. I loro capi ritengono che Varese sia la culla della civiltà umana, anche se i leghisti di ogni città della Padania rivendicano al proprio campanile questo primato. Ma tutti concordano che bisogna minare tutte le strade che portano a Roma ladrona».
«Fosse solo questo…», disse Dante. «Anch?io, nel De Vulgari Eloquentia, definii il romanesco il più fetente di tutti i volgari, ma nella Commedia fissai precisi confini: sì come a Pola, presso del Carnaro / ch?Italia chiude e suoi termini bagna… Quelli che vogliono dividerla finiranno tra i seminatori di scismi e di discordia.»
«Più colpevoli mi sembrano quei borghesi che hanno lucrato per decenni», si permise di dire Antonio, «violando le loro stesse regole e leggi. Questi leghisti con quattro idee bacate in testa, in fondo sono frutti anche loro».
Antonio disse questo con convinzione. Non era mai stato un grande oratore, di quelli che infiammavano le assemblee. Ma a tu per tu sapeva parlare, anche se lo aveva dimenticato. Ora gli pareva di aver ritrovato la favella.
«Ascolta quel che ti dico», gli disse Dante: «meglio di tutto sarebbe la Monarchia universale, altro che Padania, Etruria e Regno di Napoli e delle due Sicilie. Se l?Italia fosse ancora divisa, presto vedresti regione contro regione, città contro città, paese contro paese, uomo contro uomo. Ho già visto questo genere di cose. Ma ora non ci curiamo più di loro, anche se sarà meglio non lasciarli mai passare. Parlami di te. Sono anni che ti vedo passeggiare ai miei piedi. Una sera me l?hai persino fatta sotto. Com?è che hai sposato madonna Povertà? Ti ci sei ritrovato, in mezzo a una strada, o si tratta di vera vocazione?»
«Non ho molto da dire», rispose Antonio. «Come vedi, la vita mi ha ridotto a uno straccio. Ancora poco fa, sdraiato su questa panchina, forse non me ne rendevo conto. Ma dal momento che la tua statua ha preso a muoversi e a parlarmi, è accaduto qualcosa che non riesco a realizzare. Sento l?animo leggero e vedo la mia vita con un certo distacco. Forse sto sognando? Non riesco a spiegarmi altrimenti il prodigio. Mi chiedi se ho fatto della povertà la mia compagna per vocazione, e con franchezza ti rispondo: che altro avrei potuto fare, in un mondo come questo, che tu definisti ?l?aiuola che ci fa tanto feroci?? Avrei potuto integrarmi, laurearmi, e magari vendere l?anima al diavolo. Avrei potuto fingere di amare il mio prossimo e intanto passare sul suo cadavere. Ma tutto questo, per cosa? Per indossare vestiti alla moda, abitare in una casa confortevole, mangiare e bere, guidare una bella macchina? Se avessi scelto di scavarmi una nicchia nel formaggio, la mia esistenza sarebbe stata ben più miserabile. Ne sono convinto. Non te lo dico per consolarmi, per mostrarti un?anima bella, e tantomeno giustificarmi. Non mi sono mai atteggiato a vittima della società, ma ho cercato di vivere all?insegna della solidarietà e di stare sempre dalla parte dei più deboli, delle vittime, degli sfruttati. Per questo diventai anarchico e per questo lo rimango. Un tempo si gridava: ?Né Dio, né stato, né servi e né padroni!? Confermo il mio rifiuto di qualunque potere, costituito o solo in gestazione, ma vorrei non aver bestemmiato Dio, anche se francamente resto più che altro un ateo».
Dante, che aveva ascoltato a braccia conserte, sorrise per la seconda volta.
«Un ateo?», disse. «Che peccato! Avresti potuto essere un buon francescano, di quelli delle origini. Però sei stato sincero e ti parlerò con uguale franchezza. Mi susciti una vera simpatia, per la tua passata condizione di esule, esule come me, a causa dell?ingiustizia e della stupidità umana. Tuttavia non posso nasconderti che non condivido la tua visione del mondo, non solo in ragione della mia prospettiva. Il peccato più grave di tanti giovani della tua generazione fu proprio rinnegare Dio, più a parole che nell?azione, ma tanto bastò a gonfiarvi d?orgoglio e a perdervi. Il secondo fu un errore, più che una colpa, dovuto all?impazienza giovanile: altrimenti come avreste potuto anche solo pensare di riuscire a instaurare su questa povera aiuola quel regno millenario che fiorirà solo alla fine dei tempi? Non è mia intenzione farti la predica o la morale. La tua tensione etica, nella vita, non fu meno forte della mia. La mia vita fu costellata di errori e anche di peccati. Malgrado le congetture dei dantisti e le preghiere dei dantofili, non sono ancora asceso in Paradiso, ma sconto nei monumenti il mio Purgatorio. E qui resterò, finché la pioggia non avrà consumato i marmi e i bronzi.»
Antonio, molto turbato, non se la sentì di replicare, e non perché ritenesse gli argomenti di Dante inconfutabili. Con molta timidezza, gli chiese:
«Maestro, se potete, ditemi com?è dall?altra parte».
Dante mosse la testa a destra e a sinistra:
«Ma da quale parte?»
«Maestro, vi chiedo dell?oltretomba».
«Ma non mi appena detto che sei ateo?», disse Dante. «Non sei di quelli che scrivevano sui muri delle chiese: ?La religione è l?oppio dei popoli??».
«Per la precisione lo diceva Karl Marx».
«Già, tu eri di un?altra setta.»
«Sono anarchico, ve l?ho detto, ma in fatto di religione non l?ho mai pensata tanto volgarmente. Sono ateo, è vero, ma credo nel cuore dell?umanità, sede della sua anima. Ditemi, allora, l?Inferno, il Purgatorio e il Paradiso sono solo cantiche e metafore?»
«Quanto ti sbagli, anima mia! Non c?è nulla di più vero. Del resto, ora potrai rendertene conto da solo».
«Di cosa?»
«Ma come, ancora non te ne sei accorto?»
«Ma di cosa dovrei essermi accorto?»
«Ma che sei morto!»
Antonio rimase a bocca aperta, proprio come i morti. Quando trovò la forza di reagire alla sorpresa disse: «Ma… ma come morto?»
«Di infarto», disse Dante. «Eri di cuore troppo sensibile. Se non credi alle mie parole, ne puoi trovare conferma semplicemente guardandoti a destra o a manca».
Antonio, sempre credendosi seduto, si guardò di fianco e vide il suo corpo steso sulla panchina: «O Dio!» gridò.
Dante sorrise per la terza e ultima volta, e gli chiese: «Hai paura?»
«Sinceramente, sì . Chi non si sente un po? tremare di fronte all?ignoto?»
«Umanissima reazione. Temi di dover rendere conto del tuo ateismo?»
«Un po? è questo, te lo confesso, ma soprattutto c?è una domanda che mi angoscia: dove andrò a finire?»
«Dipende da te».
«Come dipende da me?»
«Ora ti spiego», disse Dante ma non con tono da saputello, ma da maestro paziente. «In cielo non ci sono magistrati, ma c?è giustizia. Ciascun?anima, dopo la morte corporale, è libera di scegliere la vita eterna in cui crede. Ancora ti sembrerà incredibile, ma nessuna anima ha mai scelto e mai sceglierà qualcosa che non ha meritato. Siamo tutti volontari: chi all?Inferno e chi in Paradiso, e chi, come Dante, in Purgatorio. Qui la libertà è veramente sacra. La libertà di scegliere è il dono più prezioso che il Creatore potesse farci: potrebbe rinnegare questo dono quando suona la nostra ora, dopo l?ultimo rintocco? L?uomo ha spesso rinnegato Dio, mentre il contrario non è nemmeno concepibile. Tutti veniamo dal Creatore: potrebbe mai un simile Padre infliggere torture ed ergastoli ai suoi figli, per quanto abbiano peccato? Credimi, Antonio, siamo solo noi a scegliere la Rosa e le spine, e spesso questo accade non solo dopo la morte, ma anche nella prima vita. Tu ne sei un esempio, perché rifiutasti di venderti per un piatto di lenticchie».
«O maestro, questa libertà ha un peso infinito! Tu dici che posso scegliere?»
«Senza dubbio».
«Allora scelgo le spine. Non credo di meritare di meglio».
«Nobile anima!», disse Dante, che sarebbe sceso dal piedistallo per abbracciarla. E continuò: «Tu sei degna del cielo, perché l?inferno lo hai già sofferto».
«Non importa se sono anarchico?»
«Figuriamoci! In cielo ci sono i più bei nomi dell?anarchia, perché, tra meriti e demeriti, ebbero il pregio di vivere con la testa tra le nuvole».
«Ci sono tutti i grandi anarchici?»
«Da Bakunin a Tolstoj».
«Che meraviglia!», disse il clochard con le lacrime agli occhi. «Sarà il più grande onore raggiungerli».
Allora Dante diede di tacco, svegliando gli angeli di bronzo sotto il piedistallo. Questi scesero a prendere l?anima di Antonio e insieme volarono in cielo.
L?altro clochard intanto stava ritornando alla panchina. «Antonio!», chiamò, vedendolo disteso con un braccio a penzoloni e gli occhi sbarrati. Non sentendo risposta, si avvicinò al corpo di Antonio e provò a toccarlo, e poi a scuoterlo lievemente. Gli mise una mano sulla fronte e sentì che era ancora tiepida. Gli mise una mano sul cuore e sentì che si era fermato. Per un attimo si fermò anche il suo. I due principali quotidiani della città dedicarono ad Antonio due righe in cronaca e due titoli diversi solo per una sfumatura: «Barbone muore su una panchina di Piazza Dante.». «Clochard stroncato su una panchina di Piazza Dante.»
Ma quella stessa notte una mano anonima imbrattò di rosso il marmo del monumento a Dante: «Qui sotto è morto un povero Cristo». Fu un funerale senza fiori, pagato dal Comune con qualche spicciolo, un funerale seguito da un solo amico.

Fontana:”inedito” ma già premiato

Enzo Fontana è nato a Milano. Ha pubblicato da Spirali il romanzo ?Il fiore di Mnemosine? (1989). Da Guaraldi il dramma ?Labyrinthos? (1993) e l?antologia ?Mia linfa mio fuoco? (1996). Sempre nel ?96 ha pubblicato presso Mondadori il romanzo ?Tra la perduta gente? accolto con vero entusiasmo dalla critica non solo italiana. Di prossima pubblicazione, ancora da Mondadori, un altro romanzo, ?Il Fuoco Nuovo?. Presso l?editore Laterza sta per uscire un romanzo breve ?L?ultimo viaggio di Ulisse?. Il racconto che Fontana regala ai lettori di ?Vita? ha vinto il mese scorso il premio di narrativa ?Lo Stellato?, istituito dalla Provincia di Salerno in memoria di Alfonso Gatto e trova in queste pagine la sua prima pubblicazione.

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