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Balotelli, tutti contro

di Sara De Carli

Al sindaco scappa quasi alla fine. Prima è tutto concentrato a minimizzare, a dire che «lui è un ragazzo come tanti, quando torna in paese continua a passare in oratorio, non si atteggia a star». E soprattutto, come fossimo in un favola di Esopo, continua a ribadire la morale, che lui «è la bandiera di una italianità nuova». Però Stefano Retali, sindaco interista e Pd, alla fine Mario Balotelli lo definisce così: «patrimonio della comunità». Giocandoci sopra pure due carichi da novanta come «identità» e «orgoglio». Sudafrica 2010 è già qui.
A Concesio – nove chilometri da Brescia, immigrati a quota 8%, 52 associazioni (e neanche una di calcio) – SuperMario non l’hanno mai usato come spot. Per la pagina web del Comune i concesiani illustri dopo Papa Paolo VI sono Gerolamo Sangervasio, «invitto patriota», Giuseppe Zola, abate filosofo, e Luigi Rizzardi, «modesto avanzo della leggendaria schiera dei Mille». Balotelli non c’è. Che è tutto dire. Eppure nelle misure di questo ragazzo, un metro e 89 di altezza, 85 chili di peso, 45 di piede, stan dentro ben più dei 15mila abitanti di Concesio. Uno spaccato d’Italia. E il termine non è scelto a caso.

Neri italiani
I cori razzisti hanno accompagnato Balotelli fin dal suo primo giorno in C1. Mario non è il primo né l’ultimo calciatore nero del campionato italiano, però quando arriva lui, le curve impazziscono. Hanno un bel dire poi tutti che non è razzismo, perché – lo spiega Vincenzo Abbatantuono, insegnante di lettere, ex ultras e rappresentante dei Bravi Ragazzi Juve – «nella Juve gioca Sissoko, nero pure lui, ed è l’idolo di tutti: siccome non si può essere razzisti a intermittenza, è evidente che i nostri cori non sono razzisti».
Tanto più, ricorda, che il «se saltelli muore Balotelli» è nato dieci anni fa per il bianchissimo Lucarelli, e nessuno se ne è mai lamentato. Troppo facile, replicano i fan di SuperMario dal blog: «Mario è l’unico nero per cui in Italia il razzismo non vale». Resta il fatto che gli stadi sono specchio (e pure specchio intergenerazionale, aggettivo ormai rarissimamente attribuibile ad alcunché in Italia, che lo rende ancor più degno di attenzione) della società e che lo slogan «non ci sono neri italiani» è sintesi popolare di quel dibattito sulla cittadinanza che alla vigilia di Natale sbarcherà in Parlamento.

Buco nero
A Concesio Mario Barwuah, nato a Palermo da genitori ghanesi, c’è arrivato a due anni e mezzo. Il tribunale per i minorenni lo diede in affido a Silvia e Franco Balotelli, che oltre ai loro tre figli – Cristina, Corrado e Giovanni – avevano già avuto tre esperienze di affido. L’affido è temporaneo per definizione, ma di proroga in proroga (accade spesso) Mario resta molto più a lungo dei due anni previsti dalla legge. Dalla primavera 2009, però, Mario è un Balotelli a tutti gli effetti: subito dopo aver compiuto 18 anni, infatti, ha chiesto di essere adottato da mamma Silvia e papà Franco, con quella che tecnicamente si chiama “adozione da maggiorenne”.
A fine novembre la famiglia Balotelli ha regalato la sua testimonianza alle famiglie adottive dell’associazione Genitori di cuore, nell’hinterland milanese. Lontano dalle telecamere, come è nel loro stile. Avrebbe dovuto esserci anche Mario, ma all’ultimo i medici della Nazionale non gli hanno dato il permesso di uscire. Chi c’era, giura di essere stato «incantato». «Ho un figlio di 14 anni, talento calcistico a parte direi che è uguale a Mario», spiega Angelo Lamperti, presidente di Genitori di cuore. E con uguale intende il carattere fumantino, gli scatti irrazionali «di ragazzi per il 99% del tempo assolutamente tranquilli, inspiegabili se non ci si ricorda di quel “buco nero” che c’è nella loro storia e che anche noi genitori non conosciamo fino in fondo». Se il nero è un problema, è questo qua. Digerirlo, quel “buco nero” (l’espressione viene da mamma Silvia), è un cammino difficile «e ogni provocazione che ricorda ai nostri figli quel nocciolo della loro esperienza li fa tornare indietro». Non è una scusa da propinare al preside della scuola, né a Mourinho: «A questi ragazzi dobbiamo dare tempo e opportunità». Pure a Balotelli? Sembra averne già a bizzeffe? «Sì, è la stessa cosa. L’opportunità più importante è quella di sentirsi accolti con tutta la loro storia e la loro volontà. È questo che ti fa volergli bene anche quando ti spaccano la casa o sono, come ha detto mamma Silvia, delle “bombe ad orologeria”».

Mario volontario
Diciamo che con lui la serendipity funziona all’incontrario. Perché tutte le condizioni sembrano perfette e poi invece qualcosa non funziona. Come quando è andato alla Don Gnocchi, un paio di settimane fa, tra i ragazzi disabili, ed è venuta fuori la storia che tiene al Milan. E dire che queste puntate nel sociale Mario non le fa per strategia, né di immagine, né educativa, benché questo mondo per la sua famiglia sia piuttosto connaturale. «Mario c’era. C’era con i ragazzi della Don Gnocchi come c’era il Natale scorso in favelas, a Salvador de Bahia» giura Camilla Bianchi, scout e studentessa di filosofia, che l’ha accompagnato entrambe le volte. «Se non vuole fare una cosa non la fa, non è uno che si fa problemi». Il progetto che Mario ha visitato in Brasile si chiama Mata Escura-Mata Atlantica e l’ha messo in piedi cinque anni fa suo fratello Giovanni, che è capo scout. Mario sostiene economicamente il progetto e ogni anno invia il primo premio per il torneo di calcio della scuola per panettieri: la sua maglietta è stato il premio più ambìto. L’anno scorso, durante le vacanze, al centro sono stati due giorni senza acqua, SuperMario incluso: «Nessun problema, figurati. Mario sa di essere un privilegiato, ma ha moltissima voglia di andare dove non lo acclamano, di condividere la quotidianità». Poi Camilla, che è abituata ad accompagnare i suoi scout di 17-20 anni, sposta l’accento sull’aspetto educativo: «Immagino che per lui poi sia difficile portare avanti questa esperienza nella quotidianità, ma per chi non lo è?».

Educatore full time
Già, l’educazione. Alla famiglia Balotelli è ciò che sta più a cuore. Che Mario cresca come uomo, prima che come campione. Forse nemmeno se lo sarebbero augurati, che avesse tutto questo talento. Di certo non sono stati quei genitori che urlano a bordo campo e poi insultano l’allenatore reo di non valorizzare il loro pulcino. Quelli che a cinque anni spronano i figli a giocare contro anziché con. Se Balotelli è un po’ bullo, questa volta la famiglia assente non c’entra. E proprio per questo è la volta buona per ripetere che l’educazione è un compito collettivo.
È un esperto educatore (interista pure lui) come don Antonio Mazzi che lancia l’assist. Non ne fa una questione di ambiente, donne, soldi, droga, don Mazzi. Anche se certo, «a ragazzi così giovani non si possono mettere davanti centinaia di milioni di euro». Il problema è che questi ragazzi («e nei giovani dell’Inter ci sono almeno 4/5 talenti», spiega il don Mazzi talent scout) «devono imparare, con pazienza e costanza, ad armonizzare la loro intelligenza e volontà con il loro corpo potente. Altrimenti bruciando le tappe rischiamo di bruciare persone prima che campioni». Come farlo? Don Mazzi una soluzione ce l’ha: «Nelle squadre giovanili ci vuole un educatore professionista, a tempo pieno, che conti quanto l’allenatore e il presidente». Conoscendolo un po’, forse lui sarebbe anche disponibile.


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