Mondo

Missione possibile: la pace

Gianni Morandi con la Nazionale Cantanti, scende in campo per il Medio Oriente. Che vive giorni difficilissimi

di Gabriella Meroni

Quando scenderanno in campo il 25 maggio per la partita del cuore, Gianni Morandi, Eros Ramazzotti e gli altri della Nazionale cantanti saranno più emozionati e osservati del solito. Osservati da mezzo mondo, ansioso di veder giocare per la prima volta in un’unica squadra israeliani e palestinesi, ed emozionati di giocare con la Nic per una causa speciale e difficile: la pace in Medio Oriente, mai come oggi messa a repentaglio dallo stallo dei negoziati e dagli scontri nei territori occupati. Il 15 maggio quattro morti e 300 feriti hanno insanguinato Ramallah; dieci giorni dopo, il 25, undici giocatori arabo-israeliani saranno insieme per dire sì alla pace, davanti agli occhi di Yasser Arafat e Shimon Peres. Nonostante la situazione sia sempre calda e incerta. «Andiamo avanti, come prima e forse più di prima» dice Gianluca Pecchini, manager della Nazionale italiana cantanti. «Con molta umiltà» aggiunge Gianni Morandi, che raggiungiamo nel backstage di uno dei suoi trionfali concerti milanesi. «Sentiamo la responsabilità di affrontare un tema come la pace, che è la prima cosa. Se ci fosse la pace in tutto il mondo potremmo cominciare ad occuparci davvero di tutto il resto». Gianni Morandi parla velocemente e a bassa voce, sorridendo con i piccoli occhi verdi. È stanco ma gentilissimo: fino a pochi minuti prima aveva provato lo spettacolo come fa sempre, lui che canta da una vita, ma non smette mai di costruire le canzoni sera per sera, quasi nota per nota. Una vita tutta spesa, la sua: cantando, correndo (si sta preparando per la maratona di New York), giocando a pallone. «Meglio darsi che risparmiarsi» sorride Gianni. «Anche se io dò e prendo, perché queste sono cose che riempiono la vita. Essere curiosi, stare in mezzo agli altri, questa è la vita che vale la pena vivere». Come vi è venuta l’idea di questa partita? È l’anno del Giubileo, il Papa è appena andato in Israele. Ci sembrava fosse la giusta occasione. Insieme alla Nic abbiamo fatto tante cose, ci sentivamo pronti anche per questa avventura. Da parte di israeliani e palestinesi abbiamo trovato grande disponibilità e grande piacere nel partecipare a questa manifestazione di pace, e siamo partiti. La Nic l’anno prossimo festeggerà 20 anni. Come mai hai accettato di far parte della squadra e perché hai continuato in tutti questi anni? Ognuno di noi faceva del bene privatamente, quando poteva. Poi un giorno a Mogol è venuta l’idea delle partite da giocare nei grandi stadi, per beneficenza. Io ho accettato più per il piacere di giocare che per altro, poi un giorno è accaduto un episodio che mi ha fatto crescere: una bambina, Laila, cui i medici dell’ospedale Gaslini di Genova avevano salvato la vita grazie a una camera sterile donata dalla nostra squadra, venne a dare il calcio d’inizio a una nostra partita. Ricordo che lo speaker disse: ecco un miracolo vivente. Quel miracolo, quella vita l’avevamo salvata anche noi. Fu un momento incredibile, che ci fece decidere: impegnamoci davvero, tutti insieme, con continuità. Che cos’è per te la gratuità? Riempirsi l’anima. Sentirsi più utili, più buoni in mezzo ad altri uomini. L’ho capito quando sono andato a Lourdes con i malati sui treni bianchi dell’Unitalsi, nel 1992. Pensavo fosse un viaggio che serviva solo a loro, per chiedere la grazia. Invece quando sono arrivato e ho visto scendere dai treni tutti quei lettini, le persone con le flebo al braccio, i malati terminali, gli handicappati… mi sono detto: o scappo, o se sto qui devo condivedere la loro condizione, fare un cammino con loro. Mi sono sentito piccolo davanti ai loro sorrisi, mi sono venuti in mente i miei difetti, gli egoismi… credo che tutti quelli che hanno provato a far qualcosa per gli altri sanno come ci si sente. Altrimenti non ci sarebbero 5 milioni di volontari in Italia. Però, sei informatissimo. Abbiamo la presunzione di aver fatto crescere almeno un po’ la pratica della solidarietà. Quando abbiamo giocato la prima volta a favore della donazione di midollo, l’Admo aveva 3000 iscritti, oggi sono 200 mila. Gli incassi della partita del cuore sono sempre in crescita. Ma ancora non ci basta… Cioè? Non ci basta che la gente si sia abituata a tirare fuori le 50 mila lire, vorremmo che tutti facessero un passo in più, quindi che non dessero soldi, ma tempo. L’idea è promuovere una specie di banca del tempo, in modo che le persone si impegnino con noi a dare qualche ora del loro tempo per per gli anziani, i bambini, i malati… Ci stiamo lavorando, spero che si possa realizzare. Qual è il ricordo più bello di questi anni con la Nazionale? Mi colpisce sempre la crescita, la maturazione umana che abbiamo vissuto noi cantanti della squadra. La cosa più difficile per noi dello spettacolo è mettere in pratica la frase “ama il prossimo tuo come te stesso”, perché già è difficile amare qualcun altro, ma amarlo come te stesso… per gli artisti è quasi impossibile: ci amiamo tutti come pazzi, siamo individualisti e anche un po’ egoisti. Non so se a furia di giocare per gli altri alla fine ci riusciremo. Ma almeno ci proviamo.


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