Famiglia

L’affido? in Sardegna è una moltiplicazione

Michela Murgia, autrice del sorprendente romanzo «Accabadora»

di Benedetta Verrini

«La logica di questo istituto prevede una sottrazione dalla famiglia di origine e un’addizione a un nuovo nucleo.
Da noi non è così». Parola di “fill’e anima” La solitudine ci ha presi ostaggio. La famiglia non è più il filo di una rete, è solo un nucleo. E questo è un male. Lo sa bene Michela Murgia, che con il suo Accabadora, uno dei migliori romanzi italiani di quest’anno, parla di famiglie che s’incontrano secondo una regola completamente diversa. Quella della comunità. Bisogna stare in Sardegna e bisogna ascoltare parole antiche, come “fillus de anima”, per capire. A lei, che “fill’e anima” lo è stata, questa società fatta di famiglie-monadi che si cullano in una retorica stucchevole e programmano persino la propria fine, davvero non piace.
Vita: Cominciamo dalle parole. Che cosa sono i “fillus de anima”? Bambini in affido?
Michela Murgia: È una situazione differente per logica e per contesto. La logica dell’affido è: sottrazione alla famiglia d’origine e addizione a una nuova famiglia. Qui abbiamo una moltiplicazione. La pratica dei “fill’e anima” non sorge in una situazione di conflittualità. Il termine stesso fa sottintendere che ci sia una relazione preesistente alla domanda, che le due famiglie già si frequentino e che il bambino abbia una conoscenza diretta della persona che “lo chiede in figlio”. Ed ecco un altro elemento distintivo: la volontarietà. Tutti devono essere d’accordo e il bambino stesso, quasi sempre in un’età tra i 10 e i 14 anni, deve dare il suo consenso. Direi che i “fill’e anima” sono gli unici a cui viene chiesto di nascere. La comunità locale sostiene e certifica questo passaggio di patria potestà che però non recide i legami di sangue. Non è un meccanismo facile da capire, perché a noi oggi manca il forte contesto relazionale di co-genitorialità che era proprio delle piccole comunità rurali, dove la solidarietà era l’unica forma di stato sociale possibile. Le cose che per noi oggi sono inaccettabili perché ce le aspettiamo dai servizi sociali, allora le faceva il vicinato, lo stretto parentado.
Vita: Quanto è ancora attuale questa tradizione?
Murgia: Il più giovane “fill’e anima” che ho incontrato è nato nel 1984, dunque è ancora una pratica in essere. Certo, è in decrescita perché la mentalità sta cambiando e anche nei paesi in Sardegna si comincia a sentire la necessità di una burocrazia. Quarant’anni fa nessun pezzo di carta poteva valere più del consenso di un intero paese. Infatti le uniche testimonianze le abbiamo nei testamenti: i “fill’e anima” venivano nominati eredi dalle famiglie che li avevano accolti. Spesso quelle disposizioni date in punto di morte sono straordinarie, commoventi lettere d’amore.
Vita: Lei stessa è “fill’e anima”. Come è stata la sua esperienza?
Murgia: È stata atipica. Nel mio caso il “passaggio” si è realizzato molto tardi, a cavallo dei 18 anni, perché mio padre non era d’accordo. È stato doloroso, però mi ha condotta anche verso opportunità, prevalentemente quella di studiare, che non avrei mai potuto avere nella famiglia naturale. Mia madre questo l’aveva capito benissimo, ecco perché era disposta, con ambivalenze, a questo cedimento.
Vita: Perché in queste famiglie “d’anima” non ci si chiama “mamma” e “figlio”?
Murgia: Perché quelli sono termini legati al sangue, mentre l’essere “fill’e anima” è legato alla volontà. Nessuno ti dirà mai «però è sempre tua madre”. A Cabras, il mio paese, si usava una parola per definire il bambino dentro la pancia, si diceva: “i strangiu”, che non vuol dire estraneo, vuol dire proprio straniero, sconosciuto. Lo trovo molto bello, perché indica che il bambino è un mistero per la sua stessa madre. E spesso, dopo questo “appuntamento al buio”, si passa tutta la vita a farsi perdonare di non essere proprio come ci si aspettava. Tra “anima” e “fill’e anima” questo gioco non comincia mai, perché chi mi ha scelto ha scelto proprio me e mi ha chiesto anche il permesso.
Vita: Perché la nostra società non sa più accudire?
Murgia: Credo che l’insistenza teorica, ontologica, sulla famiglia come cellula della società (e penso anche alle pressioni cristiane sul tema, di cui mi sento compartecipe perché sono credente e praticante) abbia esasperato una deresponsabilizzazione della società. La cultura che descrivo nel libro non ha in grande conto la famiglia in quanto tale, perché i compiti familiari sono estesi su un’intera comunità. L’idea di accentrare tutti i compiti sulla famiglia è certamente più economico, in fondo è un potente ammortizzatore sociale. Però lo è sempre meno in una società che non è strutturata per fare famiglie, ma solo per creare lavori.
Vita: La famiglia è stata sovraccaricata di compiti?
Murgia: L’esasperazione dell’idea di famiglia come un nucleo ha fatto venire meno l’orizzontalità. Il tuo vicino di casa non si sente più corresponsabile dei tuoi figli, se i bambini giocano in strada nessuno si sogna di rimproverare il figlio di un altro, per l’indebita ingerenza su un bambino che non è tuo. Ogni volta che sento il Papa parlare di famiglia naturale, devo dire la verità, non sono d’accordo. Per me la famiglia è un fatto culturale, tanto è vero che esistono culture in cui c’è un’intera generazione dietro a un bambino. Se è davvero naturale, allora attenzione. Perché diventano naturalmente familiari tutti i compiti di cura e assistenza che una famiglia da sola non è in grado di sostenere, in una società come questa, dove siamo più concentrati sulla produzione che sulla relazione.
Vita: C’è solitudine nella vita e anche nella morte. Cosa c’è di diverso dall’azione della mitica accabadora rispetto alla moderna eutanasia?
Murgia: Tutto. L’azione dell’accabadora è antitetica all’eutanasia. Un po’ perché s’inserisce in questo discorso di relazionalità in cui si sviluppava anche l’accudimento dei bambini. Oggi viviamo in una realtà molto tecnica e performante, dove ti è richiesto un certo standard per essere pienamente accettato. Tutto quello che scende sotto questa linea, la malattia, la vecchiaia, la morte, è oggetto di una negazione costante. Le basi antropologiche dell’accabadora erano completamente diverse, e quando mi sento dire: «Ah, ma lo facevamo anche noi in Sardegna?», penso che intanto diciamo “noi”, mentre non c’è niente di noi oggi. In una cosa come quella di Eluana Englaro, chi può identificare quale noi c’è stato dietro? L’idea dell’autodeterminazione è tutta moderna. L’idea di scrivere un testamento biologico dove tu escludi chiunque altro dall’intervento non soltanto sul tuo presente, ma addirittura sul futuro, mi sembra un modo per far diventare la solitudine esponenziale.
Vita: Cosa pensa del dibattito sull’eutanasia?
Murgia: Non vedo alcun dibattito sull’eutanasia. Vedo casi limite portati a paradigma. Non si poteva fare una legge su Eluana. Non voglio che sia l’emergenza, che colpisce alla pancia, a dettare i ritmi della riflessione. Io ho trovato molto più problematica la questione Welby. Perché se sei in grado di esprimere una volontà così ferrea, nessuno ti può dire che sei un agonizzante. E proprio perché c’era quella volontà io l’avrei presa in considerazione. Perché lì c’era un “noi”. C’era una moglie.

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