Non profit

Nord e Sud del mondo, agricoltura sotto assedio

editoriale

di Giuseppe Frangi

C’è un passaggio del discorso pronunciato dal Papa in apertura del vertice della Fao, che deve far riflettere. Ha detto Benedetto XVI: «La fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali». In effetti, come ripete Carlin Petrini ogni volta che prende la parola in incontri pubblici, il mondo non ha problemi di scarsità di cibo. Semmai ha il problema molto diverso dello spreco di cibo. E allora perché la fame sembra sempre un moloch invincibile, che cresce di dimensione come documentano i dati del rapporto Fao 2009 (+ 105 milioni di persone denutrite rispetto al 2008)? A questa domanda si possono dare tante risposte, ma il Papa ne evidenzia una più decisiva delle altre. Ed è il venire meno di quel capitale umano che in tanti regimi economici poveri garantiva un sapere in grado di produrre il necessario per il sostentamento. Certo, poi arrivavano i flagelli naturali a scatenare spaventose carestie, ma il dato di fondo non cambia. Quel sapere era una risorsa che altri modelli hanno distrutto inseguendo il mito della globalizzazione. Come evidenzia con una sintesi geniale la vignetta di Glez in queste pagine, il nuovo modello è quello di un consumismo planetario, che ha lavorato per creare anche nei Paesi poveri una platea di consumatori smantellando quella dei piccoli produttori. Sogno drammaticamente velleitario, perché il risultato è stato quello di impoverire chi era già povero. Mentre l’insaziabile venditore di merci che credeva di aver “creato” un nuovo cliente deve tornarsene sconfitto e grottescamente gonfio di cibo da buttare da dove era venuto?
Questa mitologia di un rinascimento urbano e consumista ha conquistato nell’ultimo trentennio i governi dei Paesi poveri (le vie del colonialismo sono infinite) che hanno sviluppato politiche prioritariamente per le zone urbane, marginalizzando le zone rurali, con la conseguenza dello spopolamento e dell’abbandono dell’agricoltura. Oggi su quegli immensi territori mai coltivati o abbandonati da questo esodo verso le città, si sono fiondate le grandi multinazionali in particolare asiatiche, che hanno acquistato il diritto alla coltivazione per decenni. È il “land grabbing”. Su quei terreni si produrrà altra materia prima destinata a gonfiare i consueti circuiti già gravati dallo spreco e dall’obesità.
Nel frattempo anche nei Paesi ricchi è avvenuto qualcosa di analogo, come cerca di spiegare il servizio di copertina di queste pagine. Il mondo contadino è stato attaccato da modelli produttivi e distributivi che privilegiavano gli interessi dei grandi produttori. Nonostante questo, quel mondo ha dimostrato un’eccezionale capacità di resistenza e di rinnovamento, così da farsi trovare pronto a proporre un modello di produzione e consumo molto più avanzato e soprattutto sostenibile, quello che viene chiamato della “filiera corta”. Ora la tempesta della speculazione si è abbattuta su questa agricoltura piccola, orgogliosa e moderna. Che traballa per i prezzi azzerati delle materie prime. Ma se perdono i contadini del 2009, perdiamo tutti. Saremo più poveri. Magari non di cibo ma di capitale sociale. Il che è molto più drammatico.

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