Vent’anni fa, il 16 novembre 1989, un gruppo di militari fece irruzione nell’Uca, l’Università centro americana del Salvador. Con i mitra puntati ordinarono al rettore, padre Ignacio Ellacuría, a cinque suoi colleghi, tutti gesuiti, alla cuoca e alla sua figlia di 15 anni, di stendersi a terra. Poi aprirono il fuoco. Ellacuría e i suoi confratelli erano vicini alla teologia della liberazione, impegnati in un tentativo di mediazione fra il governo e i guerriglieri. Questa la loro colpa. Una strage consumata una settimana dopo la caduta del muro di Berlino. Quei gesuiti sembrarono schierati dalla parte sbagliata. A nessuno venne in mente di considerarli “martiri” cristiani. Si seppe poi che gli autori dell’eccidio appartenevano al battaglione Atlacatl, reparto speciale dell’esercito salvadoregno addestrato da consiglieri Usa. Due esecutori furono arrestati e nel 2001 condannati a 30 anni. Nel 2003 tornarono liberi grazie ad un’amnistia. I mandanti non sono mai stati perseguiti. Pochi mesi prima del massacro, il Papa nero, Peter-Hans Kolvenbach, aveva fatto visita ai suoi confratelli dell’Uca. Ha ricordato così quell’incontro: «Mi rivolsi a loro e gli ripetei: “Sembra che voi siate tutti marxisti o comunisti”. Scoppiarono a ridere, e Padre Ellacuría mi disse: “Lei crede veramente che noi daremmo la nostra vita per Karl Marx o le sue teorie? Siamo compagni di Gesù e qui sta il mistero delle nostre vite”».
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