Non profit

Far west Mogadiscio

Un giorno di ordinaria follia nei vicoli segreti della capitale della Somalia

di Redazione

Fra colpi di mortaio e compravendite di spaghetti turchi e lanciarazzi spallabili, tre giornalisti italiani sono entrati
nella città più pericolosa
del pianeta.
Ecco che cosa hanno visto
Mogadiscio, novembre 2009
Gli occhi di Mohamad sono accesi di rabbia. Dalla sua giacca con i simboli della mezzaluna rossa prende un paio di occhiali, tenuti insieme con del nastro adesivo, e guarda attentamente i nostri volti. Sono vent’anni, dice, che non vedo un italiano. Poi torna a dividere con un paio di forbici arrugginite le garze in due parti, prima di avvolgerle intorno al corpo di un uomo adagiato su una branda. Manca tutto, all’ospedale Martini di Mogadiscio, e i cadaveri, oggi, sono troppi. Tiri di aggiustamento, in gergo: si spara un proiettile, e si sta a guardare dove cade. Poi, se necessario, si corregge il tiro. Si muore anche così, in questa città insanguinata da vent’anni di indicibili violenze, che nessuno sembra in grado di fermare. Basta essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Il governo di transizione somalo, guidato dal presidente Sheik Sharif, ex leader delle Corti islamiche, esponente del clan Abgal, controlla ben poche strade della capitale. Appoggiato dagli Usa, sostenuto economicamente dalla comunità internazionale, difeso da un manipolo di ugandesi e burundesi dell’Unione Africana, il giovane presidente affronta un’offensiva senza precedenti, scatenata a maggio dalle milizie fondamentaliste Al Shabaab e Hizbl Islam, decise a conquistare la capitale. Nate dalla disgregazione delle Corti islamiche, ogni giorno combattono in campo aperto con i metodi tipici delle forze terroristiche qaediste. Tra le loro fila combattono yemeniti, pakistani, afghani, ma anche inglesi e americani. «L’ideologia di Al Shabaab si diffonde nel Paese come un’epidemia», confida il ministro della Sicurezza, Abdullahi Mohamed Ali, «irrompono nelle scuole per tenere dei comizi, arruolano forzatamente gli studenti, approfittano della situazione drammatica. Avere un fucile in mano, in Somalia, significa avere del cibo, sopravvivere». Il clima di generale insicurezza, l’assenza di istituzioni credibili, l’indifferenza con cui la comunità internazionale ha trattato la crisi somala negli ultimi dieci anni hanno favorito la proliferazione di milizie autonome, veri e propri freelance del crimine dediti al traffico d’armi, ai rifiuti tossici, ai sequestri, ma anche di organizzazioni armate che operano con scopi diversi.

Fuoco amico
Completamente priva di navi, sparite e in qualche caso rubate nel corso degli anni, la Marina militare somala ha appena ricevuto un contingente di 500 marinai addestrati a Djibuti. Schierate nella zona del porto, sotto il fuoco nemico, le reclute indossano il cappello azzurro del Chelsea, una squadra di calcio inglese. All’improvviso, un miliziano governativo carica un rpg (lanciarazzi spallabile) e lo punta verso una zona amica. Ne nasce un conflitto a fuoco tra le stesse forze governative. I marinai, quelli che restano in piedi, si danno alla fuga, mentre chi si occupa della nostra sicurezza cerca affannosamente una via d’uscita. Sopravvivere, a Mogadiscio, è questione di fortuna: ma non solo.
Bakara Market è, nello stesso tempo, il cuore pulsante di una prospera economia di guerra e il luogo più pericoloso della terra. Vi si compra e vende di tutto, dagli spaghetti turchi ai lanciarazzi spallabili. Impossibile avventurarsi all’interno dei suoi vicoli, che ogni giorno sono bersaglio dei tiri di mortaio. Eppure ingenti quantitativi di merci e di denaro entrano ed escono dal Paese ogni giorno grazie a un meccanismo infallibile. «Le Hawala costituiscono un sistema bancario efficiente, per quanto primitivo. È sufficiente una telefonata per movimentare, immediatamente, ingenti quantità di denaro anche in forma di credito», racconta Omar, titolare di queste sorta di banche informali. «Garanzie? La parola, per un somalo, è una garanzia sufficiente. Nessuno si sognerebbe mai di incassare denaro non suo: le conseguenze sarebbero terribili».

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