Mondo

La riforma di Obama e le non riforme italiane

Editoriale

di Giuseppe Frangi

Per difendere la riforma della Sanità passata alla Camera lunedì 9 novembre, Barack Obama non si è fidato delle alchimie della politiche. Ha preso e di persona è salito a Capitol Hill per mettere il peso del suo ruolo davanti a quei deputati democratici che vacillavano. Ha mobilitato anche i vescovi americani per trovare un punto di mediazione intelligente, che taglia le ali fondamentaliste, conservatrici e liberal, sull’ultimo nodo rimasto: quello dell’aborto (le assicurazioni pubbliche non serviranno a coprire le interruzioni di gravidanza). È stata un’operazione politica che è il frutto del miglior Obama, quello che Barbara Spinelli, in un editoriale sulla Stampa, ha dipinto in questi termini: «Obama dice spesso che la sua ascesa è frutto di americani come Reinhold Niebuhr, un autore che stima per aver raccomandato al Paese non il messianismo politico ma l’umile consapevolezza dei propri limiti». Se davvero Obama riuscirà a convincere anche il Senato ad approvare una riforma capace di garantire assistenza sanitaria a quei 36 milioni di americani che oggi ne sono privi, avrà ottenuto un grande risultato politico e civile. Obama si è dato questo obiettivo, ne ha fatto la priorità della sua politica. Dovessimo chiederci qual è l’idea corrispettiva che regge l’azione politica della maggioranza oggi al governo in Italia, c’è da restare scoraggiati. Eppure le condizioni di partenza non erano diverse. Il Pdl in Italia e Obama in America hanno potuto far leva su un consenso elettorale che aveva superato ogni attesa; quanto alla crisi, avrebbe dovuto pesare assai più sulle scelte di Obama, visto che gli Stati Uniti sono stati l’epicentro del sisma finanziario. Invece il presidente Usa, se la riforma arriverà in porto, staccherà un assegno da oltre mille miliardi di dollari in dieci anni. La convinzione è che non sono soldi a perdere ma un investimento sociale che avrà una ricaduta di benefici anche economici. E in Italia? La risposta è scontata: niente di tutto questo. Ma, come dimostrato, non è una questione di risorse. Eppure la coalizione che governa un paio di grandi obiettivi sociali aveva davvero la possibilità di darseli. Invece li ha mancati, restando nelle acque melmose di una politica mediocre, senza capire che quegli obiettivi potevano tradursi in collante per un consenso futuro. Il primo obiettivo era un rilancio della famiglia, che non è solo un “valore”, ma è innanzitutto una cellula sociale, cruciale nell’assetto della vita collettiva, e che oggi vive impaurita, incapace di progettare il futuro, sotto l’assedio di una povertà incombente e di una fragilità strutturale. Il quoziente familiare era la grande idea da mettere in campo, per dare coraggio e respiro: ma è rimasto solo come uno slogan, richiuso presto nel cassetto. Il secondo obiettivo era un rilancio della scuola, che è cosa diversa dalla riforma Gelmini, imperniata sul contenimento dei costi. La scuola non è un costo ma un formidabile investimento, come ha dimostrato la ricerca commissionata da Bankitalia e presentata nei giorni scorsi. Il rendimento fiscale per lo Stato ottenuto confrontando l’ammontare di spesa pubblica necessaria per alzare la qualità dell’istruzione e i benefici di gettito che ne derivano (redditi più alti, meno disoccupazione) è stato calcolato tra il 3,9 e il 4,8%. Davvero non vogliamo pensarci?


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