Martedì 3 novembre è stato segnato un nuovo record nelle carceri italiane: superati i 65mila detenuti. Duemila oltre la soglia di tollerabilità, che è di 63.568 posti. Un record che si è andato ad aggiungere a una serie di fatti di cronaca incalzanti e drammatici: la misteriosa morte del giovane Stefano Cucchi, arrestato per spaccio; il suicidio della brigatista Blefari; il pestaggio nel carcere di Teramo con tanto di telefonata intercettata tra due guardie carcerarie, come riferisce la rubrica di Alessandro Banfi in questa pagina. Lo stesso capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta ha parlato di «emergenza nazionale». E ha dovuto fare un appello a tutto il personale penitenziario «a mantenere i nervi saldi e a lavorare con lucidità». Ma è difficile fare argine a una situazione che vede ogni mese crescere la popolazione carceraria di oltre 800 unità (basti pensare che il 1° gennaio 2007, dopo l’indulto, i detenuti erano 39.005. In meno di tre anni sono aumentati di quasi 27mila). E lo spaccato nasconde dati ancora più impressionanti: il 37% di chi sta in cella è straniero, il 50% è in attesa di giudizio.
Non c’è da stupirsi se in una condizione invivibile per tutti, detenuti e personale penitenziario, la cronaca si trasformi quotidianamente in un bollettino di guerra. E di fronte a questa situazione la politica che cosa fa, che cosa propone? Tacere non può, perché i fatti la incalzano ogni giorno. E allora non ha trovato altra soluzione che girare attorno al problema proponendo quel Piano carceri che, sempre che diventi esecutivo, dovrebbe garantire 21mila nuovi posti nel? 2012. E di qui al 2012? Risparmiamoci le proiezioni, che a questo ritmo assumerebbero proporzioni apocalittiche. La realtà è che la politica sulla questione carcere dimostra tutta la sua drammatica pochezza. Vive nel terrore di giocarsi il consenso, scoprendosi completamente in balìa di un’opinione pubblica a sua volta alimentata da un’informazione giacobina.
Eppure, anche in questa situazione che assomiglia sempre più a un drammatico “cul de sac”, le strade praticabili non mancano. Se l’indulto ormai è tabù (ma ricordiamo che a dispetto della martellante disinformazione, la recidiva di chi è uscito per quel provvedimento è stata molto più bassa che per i detenuti normali), l’esperienza dimostra che l’investire sul reinserimento, attraverso il lavoro o le pene alternative, è la prospettiva non solo più civile ma anche più redditizia. Come ha detto Luigi Manconi, «la legge Gozzini è quella che più ha garantito sicurezza ai cittadini: ha fatto sì che il carcere non fosse più semplicemente una macchina di produzione di crimini e criminali». Questa è una grande battaglia che il mondo del non profit può e deve far sua, a livello culturale come a livello di esperienze su cui investire, partendo dalle tante esperienze già in atto. Sarebbe una battaglia di cui andrebbe orgogliosa un’anima grande come quella di Alda Merini, che ci ha appena lasciati. È stata una testimone libera e vera, ha saputo mettere su carta parole di commovente bellezza pur vivendo una biografia drammatica. È un esempio. E un invito al coraggio.
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