Famiglia

Un ticket per i Miracoli

Cos’è la carità? Lasciare entrare gratis in chiesa tutti, anche i down. L’appello di Aurelio Picca ai pisani

di Aurelio Picca

Le ragazze italiane sono belle. Ce ne sono ancora di bellissime. Camminano per le strade posando un piede dietro l?altro. Magnifiche. Con i denti sani. Ora che le guardo mi viene da pensare che non tutte sono state sverginate violentemente, senza stupore. Ma oltre alle ragazze ci sono pure i ragazzi down. Non esistono mica soltanto i matti, quelle bestie folli di italiani che non si stupiscono più di niente, che mangiano e mangiano le noccioline americane, infilandosi nelle frogie quella specie di involucrino rosé delle noccioline bianche senza bucce. A differenza di questi qua, infatti, i ragazzi down sono lo stupore in persona. C?è Vincenzo in maglietta bianca con scritto Magic e Paperino che si spezza e le orecchie a sventola e il cappellino con la visiera rovesciata, questa volta come lo portano i matti veri, i ragazzi italiani al cento per cento perversi. Armandina è alta come una banana; anzi, come un cestino di banane con quella sua testolina a banana con la barba. Armandina se ne sta in disparte proprio come una banana che si è staccata dall?albero di banane, perché la maestra – toscana o fiorentina -, la incita: «Che fo, che fai tu in disparte Armandina, lì ssola. Vieni che c?è la paperella. Guarda la paperella che pappa, Armandina!» Allora Armandina si leva dal muretto come una bananina che cade dal banano e si avvicina alla maestra che, pare, sia la stessa maestra che ha portato in gita, qui, a Torre del lago, dove c?è la casa di Giacomo Puccini, i ragazzi down. «Ti becca il dito più del pesce!» grida al gruppetto down, il ragazzo, sempre down, che trascina bicchieri di acqua a raffiche contro la fontana di ghisa. I ragazzi ridono. E pure io che non sono down, ma che faccio ormai schifo come gli italians che non si stupiscono di nulla, sorrido. Carletto intanto sbriciola il suo panino per il papero ingordo. Mentre la Gianna, la Francesca, il … che non mi ricordo, e gli altri, vorrebbero pescare con mani invitanti, tenere, stupite, i pesci che boccheggiano in quel loro modo appropriato da questo specchio di laguna. I ragazzi down chiamano i pesci. E si scattano foto mentre li chiamano, come se la voce, la voce della gioia che chiama il pescetto di Torre del lago, possa stamparsi per sempre nella vita. Poi qualcuno di loro si assopisce o accascia sul muretto. Il Marcello è il più buffo: come un cane con la pelle charpie. Intanto il papero fa parata. Su e giù, giù e su sul marciapiede dinanzi al muro, ribattezzato ?dei ragazzi down?. Ma ecco che all?improvviso da un?automobile scendono un bambino e suo padre rosso di pelle e di capelli. Si mettono a rincorrere il papero, fino a quando l?animale non fugge dall?altra parte della strada, lontano dai ragazzi down. Eppure loro sono rimasti seduti, buoni, stupiti dalla vista del papero che se ne andava via rincorso a calci dal bambino e dal papà. Ora se ne stanno muti i ragazzi down. Assorti a guardare l?imbarcadero da dove è apparsa una giapponesina con il suo ombrellino chiaro. La guardano tutti. Osservano pazienti, candidi, questo specchietto d?Italia frantumato. In questo momento sono a Pisa, in un?afa brutale. Ho raggiunto la città senza un vero motivo. Pisa è un campo verde. È questo giardino verdissimo, dopo aver attraversato una porta. E subito si vede la Torre pendente, in fondo. Il Battistero. Il Duomo. E il lunghissimo bianco di marmo del Cimitero Monumentale. Allora mi è facile pensare che Pisa è bella per due motivi. Il primo è dettato dal ricordo che la città un tempo (quando era Repubblica marinara) lambiva il mare. Il secondo (è causa del primo, e non consequenziale) è l?immagine di Pisa che appare già sul tratto autostradale della Versilia, col suo bianco di Cupola sotto le Alpi Apuane, con il mare sulla sinistra, vicinissimo, come se da cinquecento anni non si fosse mai allontanato. Poi non c?è altro. Nulla che valga la pena raccontare. Niente altro che codesto campo miracoloso: miracolato dalla fermezza dei monti, dalla gentilezza dei luoghi, dal profumo d?erba tagliata che giunge perfino sul lungomare di Viareggio. Di sera. Che sembra proprio una bellissima sera italiana, come le belle ragazze italiane, quelle che necessariamente non si costringono a uno sverginamento orribile. Il Campo Santo è una bara bianca con il soffitto a travi di legno, ricostruito dopo l?incendio causato dai bombardamenti nell?ultima guerra. Studio i blocchi di marmo che si innalzano fino a quando non si ritagliano in aperture arabe, crociate: di crociati che partono verso la Terra Santa. I marmi sono anche venati di rosa, di grigio. Cammino ora nell?ombra del marmo, rimpiangendo la mia vita, chiedendomi «perché non hai mai amato questa ragazza danese che ti cammina dinanzi e che non ha il coraggio di rivolgerti lo sguardo?» Comunque, non sono dispiaciuto. Né disperato. Cammino nel sole di agosto che acceca: preferisco sopra ogni cosa questa barriera bianca che chiude il Campo e avvampa nel sole, centuplicandosi di bianco, sconvolgendosi di bianco, come nelle guerre dei crociati. Nelle guerre e basta. Non sono neppure dispiaciuto perché il Battistero non mi piace. Lo sono invece perché si paga il biglietto d?ingresso. «Ma questo», mi dico, «è giusto. Ci sono i lavori di restauro da fare. E poi tanta gente che vorrebbe soltanto rosicchiare la bellezza e un po? di frescura senza il minimo ritegno. Ebbene, sì. È bene pagare.» Mi racconto ciò mentre alcuni flash ritraggono i segmenti di marmo nero e i turisti sono veramente una pattuglia sparuta e i vigilantes sono dei vigilatori con mazze di ferro invisibili tra le mani, come se dovessero prepararsi a una nuova contesa coi fiorentini. È quando tento di varcare la soglia del Duomo, mascherato per i lavori di restauro, che la mia rabbia vorrebbe far sprofondare gli sgherri e i crociati che hanno tradito. NON È POSSIBILE CHE SI PAGHI PER ENTRARE IN CHIESA. È INACCETTABILE. QUESTO È UN ORRORE. Invece, è proprio così, per entrare nel Duomo di Pisa, nel bianco di questa ultima guerra che combatte l?Italia contro se stessa, la sua storia, la sua bellezza, il suo candore, bisogna pagare il biglietto. Un lurido biglietto. Non c?è di mezzo la fede. La chiesa. Oppure sì. Non c?è di mezzo nessuna religione. O forse sì. Ma è in ballo soprattutto la memoria, la civiltà, il rispetto per chi vuole entrare in una chiesa, semplicemente. Pisani di tutto il mondo, spezzate le vostre catene. Fate LA CARITÀ, riaprite la vostra chiesa, liberatela, proprio come se appartenesse a tutti. Anche ai ciechi, anche ai ragazzi down. Il suo dopoguerra italiano è finalista al ?Viareggio? Continua con questo racconto di Aurelio Picca la serie estiva di racconti sulla carità, partita da un?idea di Luca Doninelli e iniziata in giugno con un racconto di Adriano Sofri (nelle prossime settimane toccherà a Voltolini e Gambardella). Picca è nato nel 1957 a Velletri. Ha pubblicato la raccolta di poesie ?Per punizione? (1990), per poi esordire nella prosa con i racconti de ?La schiuma?. Seguono i romanzi brevi ?L?esame di maturità? (1995) e ?I mulatti? (1996). È finalista del Premio Viareggio 1998 con ?Tuttestelle?, romanzo che racconta gli ultimi 40 anni di vita itaiiana.


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