Domenica 25 ottobre in piazza Duomo a Milano don Carlo Gnocchi verrà proclamato beato. In piazza a “festeggiare” questo riconoscimento ci saranno decine di migliaia di persone: eppure dalla sua morte sono passati più di 50 anni. Una prova di affetto (e di popolarità) che non si è alimentata di nessun miracolismo né di nessuna parola d’ordine. Don Gnocchi ha di straordinario il fatto di essere un non-personaggio; in vita ha sempre mandato avanti le ragioni del suo operare (diceva di sé: «Ho agito senza programmi, direi che me la sono trovata adulta e sempre crescente tra le mani»). Dopo di lui, rispetto al suo culto, è prevalso il continuare, il far crescere, l’aggiornare ai nuovi bisogni l’opera grande da lui iniziata. Per questo Don Gnocchi è un uomo a cui continuare a guardare, che si sia cattolici o no.
Si può guardare a lui come a un grande spirito laico: pur avendo una fede profondissima non ha voluto dar vita a un organismo solo religioso. La laicità in lui si è tradotta in realismo. «Non ho le doti del fondatore di congregazioni. Non mi resta che adottare un’altra soluzione», aveva scritto di sé. Fece una fondazione, intuizione che precorreva i tempi e che consegnava all’operosità dei laici il proprio destino. Il tempo gli sta dando ragione in modo clamoroso.
Si può guardare a lui come a un grande cristiano, per il quale la fede si traduceva in una passione inesausta per il reale, senza schemi e senza caselle. Sentite come la pensava: «La passione sociale è un distintivo delle anime che hanno capito il cristianesimo e vogliono viverlo attivamente (…), come diceva Péguy il cristianesimo è “un immischiarsi furiosamente nelle cose che ci riguardano”».
Quindi, di conseguenza, si può guardare a lui come a un grande irrequieto, che si metteva sempre di traverso rispetto a tutti i disegni accomodanti del potere. Al suo cardinal Schuster, che ne seguiva con notevole apprensione le peripezie, si giustificava con una domanda paradossale: «Che colpa ne ho io se non so e non posso dire di no alle generose offerte di bene che mi fa la Divina Provvidenza?».
A proposito dell’idea di “bene” si può guardare a don Gnocchi senza esser risucchiati in nessun moralismo. Per lui il bene è un’ipotesi di lavoro molto concreta. Non basta assistere, occorre riabilitare. Sintetizzava così la sua idea: «Recuperare ed intensificare la vita che non c’è ma che ci potrebbe essere». Questo è per lui il palesarsi del bene.
Ma c’è un motivo sopra tutti gli altri per guardare ancora oggi a don Gnocchi: è la passione struggente che aveva per il suo tempo. «Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande, così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante, ma in ogni caso sempre sincero e appassionato. Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della lotta, avremmo scelto? il Novecento senza un istante di esitazione». Parole di un uomo che non si imboscava mai davanti alla realtà, che si sentiva chiamato in causa da tutto, non per dovere ma per amore. Solo così si spiega perché il 25 ottobre in decine di migliaia saranno in Piazza Duomo per lui: mica solo perché lo fanno quasi santo.
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