Non profit

Iraq: 5 milioni di profughi, ma il mondo non li può vedere

La diaspora invisibile che nessuno ha mai raccontato

di Daniele Biella

La maggior parte vive in clandestinità nei Paesi vicini. In Giordania sono in 500mila. Ma per avere la residenza regolare serve un patrimonio di almeno 100mila euro Una diaspora immensa: la seconda del Medio Oriente dopo quella palestinese, ma invisibile. Sono quasi cinque milioni gli iracheni (circa un quinto della popolazione) che dal 19 marzo 2003 (data d’inizio della seconda guerra del Golfo) a oggi hanno dovuto abbandonare le loro case: 2,5 milioni dislocati tra Siria, Giordania, Libano ed Egitto, almeno altri due milioni rifugiati in zone meno pericolose dello stesso Iraq. Adulti e bambini che scappano in massa dal conflitto più sanguinoso del XXI secolo (che fino a ottobre 2009 ha causato la morte di 101.896 iracheni e 4.666 soldati delle forze occidentali, di cui 4.348 statunitensi), disperati colpiti da un ulteriore flagello: il totale disinteresse dell’opinione pubblica mondiale. «Eppure si tratta di un movimento incessante di persone. Ma non ne parla nessuno perché c?è mancanza assoluta di informazioni dirette», lamenta Antonio Stinelli, 28 anni, capo progetto dell’ong italiana “Un ponte per” ad Amman, capitale della Giordania, dove si sono rifugiati almeno 500mila iracheni.
«Da anni ormai le immagini che arrivano al mondo occidentale dall’Iraq sono sempre le stesse», prosegue Stinelli, «è materiale storico raccolto nei primi tempi del conflitto, quando c’era ancora la possibilità di informare liberamente, senza rischi». Ma non è solo questo il motivo che rende chi scappa dall’Iraq un caso a parte nel drammatico mondo dei rifugiati del terzo millennio: «Stiamo parlando di migliaia di persone di ceto medio, che nel loro Paese avevano istruzione e sanità di buon livello e gratuite, e ora si ritrovano senza né documenti né un lavoro», chiarisce Stinelli. Intercettarli può essere difficile anche per un’organizzazione non governativa: «È gente che non vive in campi profughi, ma in case di amici, parenti o in affitto». Chiedere aiuto, nonostante la situazioni sempre più precaria, non è loro consuetudine. Ma qualcosa si può fare. Un primo successo di “Un ponte per” è stata la repentina diffusione del telefono amico, «una hotline dove le donne possono raccontare i loro problemi e, una volta acquisita fiducia, farsi visitare e seguire», spiega Nadia Shamrouk, presidente dei partner di Jordanian women union. «Sono arrivate duemila chiamate in un anno, segno che c’è molta voglia di aprirsi». Per questo le due ong contano di replicare il servizio nelle altre tre zone in cui sono presenti i profughi iracheni, offrendo anche alle donne assistenza medica, psicologica e legale, «perché spesso sono vittime di violenze», rivela Shamrouk, «ma sono anche la chiave per cambiare le cose, e migliorare la situazione di tutti i profughi». Uomini compresi, «ridotti a fare i venditori ambulanti per le strade delle città giordane, l’unico lavoro possibile data la loro condizione di irregolarità», aggiunge Stinelli.
Mentre infatti i profughi palestinesi (il 60% della popolazione giordana) hanno uno status proprio, per gli iracheni è quasi impossibile avere un documento in regola: per la solo residenza una famiglia infatti deve dimostrare di possedere 100mila dinari giordani, quasi 100mila euro. «E dal 2009 per entrare in Giordania dall’Iraq è necessario un visto, che vale massimo due mesi. Se rimani oltre, una volta scoperto paghi una multa di 1,5 dinari per ogni giorno in più», precisa Ismael Dawood, operatore iracheno di “Un ponte per”, che sta provando sulla propria pelle la difficoltà di tornare in patria per fare visita ai parenti rimasti e alla propria casa. «Non rientro dal 2007, anche perché, oltre al pericolo di muoversi oggi in Iraq, il rischio è che al ritorno le autorità giordane non mi facciano più passare il confine». La Giordania infatti non aderisce alla Convenzione di Ginevra, magna charta del diritto internazionale umanitario.


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