Mondo

Leopardi a Kabul

Edoardo Albinati, scrittore, è stato per quattro mesi volontario in Afghanistan. Da questa esperienza ha tratto un libro, che è molto più di un diario (di Luca Volponi).

di Redazione

Edoardo Albinati è autore di diversi romanzi, tutti più o meno ispirati a un realismo che non a immaginazione e fantasia (Maggio Selvaggio, 19, Il polacco lavatore di vetri). L?ultimo suo libro è il diario di una missione in Afghanistan (Il ritorno, Mondadori, 8 euro: i diritti sono destinati alla ricostruzione di un villaggio sull?altopiano di Shomali; per donazioni, numero verde 800.298000) come volontario addetto ai servizi sociali per conto dell?Alto commissariato Onu per i rifugiati. Albinati lo ha scritto perché è convinto che il mondo è un po? più grande del proprio ombelico, senza troppa pubblicità o retorica. Secondo l?Onu nel mondo esistono circa 19 milioni e mezzo di esseri umani perseguitati da guerre, morbi, carestie o regimi violenti e rifugiati in un Paese straniero. Due milioni di essi hanno fatto ritorno in Afghanistan recentemente. Albinati ha raccontato la loro storia. Vita: Perché l?Afghanistan? Albinati: Era parecchio tempo che pensavo a un impegno sulla detenzione fuori dall?Italia e mi era venuta la voglia di occuparmi di detenzione nelle zone di guerra. Così ho inoltrato richiesta alla Croce Rossa e ad altri organi di cooperazione internazionale tra i quali, ovviamente, anche l?Alto commissariato per i rifugiati Onu (Unhcr). Il 2002 è stato l?anno in cui circa due milioni di afghani scappati dalla guerra sono rientrati nel proprio Paese con le conseguenze bibliche che ci si può immaginare. Un intero popolo in marcia per fare ritorno alle città o ai luoghi nei quali era vissuto e che per gran parte erano stati devastati dalla guerra. Gente che faceva ritorno a un luogo che spesso non esisteva più se non nel proprio ricordo, ma che continuava a essere l?unico ponte d?unione tra un presente impossibile vissuto all?estero e un passato duro ma tangibile. C?era da organizzare il ritorno di un popolo nella propria terra dopo un conflitto sanguinosissimo, durato più di venti anni e culminato con l?attacco americano, e l?Onu aveva bisogno di qualcuno che cooperasse a questo grande progetto di ricostruzione. Così la mia domanda fu accettata e partii per conto dell?Unhcr. Vita: E il libro è appunto il diario di questo intervento… Albinati: Sì, ma non solo. Certamente sentivo dentro il bisogno di reificare l?esperienza che avevo vissuto. Ma c?è anche il racconto di un popolo in marcia verso casa, di orfani e vedove in balia completa degli eventi e di tribù senza scrupoli, ci sono gli umori e gli stati d?animo di una galassia di operatori Onu spesso alle prese con l?orrore e la disperazione di chi è costretto quotidianamente a fare fronte ai più elementari bisogni di sopravvivenza. Ma poi c?è un altro aspetto del mio libro cui tengo moltissimo: l?analisi, che è anche il frutto della continua osservazione dei moti dell?anima, per dirla alla leopardiana, di chi come me ha fatto l?esperienza di essere toccato da una realtà ai limiti dell?abominevole e del tollerabile. Credo che una realtà che non ci ferisca non sia poi così interessante da raccontare. Vita: C?è da dedurne che si è fatto un?idea dell?Afghanistan e della sua gente molto lontana dagli stereotipi? Albinati: Credo che quando si parla di popoli non si debba mai generalizzare. Si generalizza solo per avere un?idea del particolare a partire da un universale molto astratto dalla realtà. A me non piace parlare dei greci, dei cristiani, dei romani o degli ebrei: non dimentico mai che dietro la copertura di una definizione generalistica batte il palpito, spira l?alito degli individui. Non esistono i popoli ma esistono le persone che compongono quei popoli di cui si discorre con troppa faciloneria. Invece si deve avere la capacità di immaginare il moltiplicarsi delle storie di ogni individuo dietro quello che chiamiamo il ?movimento? o la ?storia? (magari con la esse maiuscola) di un popolo. Detto questo, l?idea che mi sono fatto di quella gente non riesce a prescindere dalla immensa capacità di resistere e reagire alle immani sciagure che hanno colpito tutti, indistintamente, ricchi e poveri, donne e uomini, giovani e anziani. Per tutto il tempo non ho conosciuto un solo afghano che fosse stato risparmiato dalla tragedia, non ho conosciuto una persona sola che non avesse patito morte e distruzione nella propria carne, nella propria famiglia di origine o in quella formata. Gli afghani hanno conosciuto di tutto: lutti, devastazioni, esilio, peregrinazione in terre ostili e straniere con una desolazione che è trasudata fino nelle ossa della società afghana. Vita: è un?immagine quasi disperata, come se non ci fosse una possibilità di vita diversa? Albinati: Non è così. Quando ero là pensavo che quella era gente che aveva sofferto immensamente nella propria vita e che per una vera catarsi da tanto orrore ci sarebbero volute due o tre generazioni, fortunate e senza guerra, per rimettersi nel dna la speranza e la pace. Eppure, malgrado tutto, malgrado le vessazioni patite, ho conosciuto uomini e donne con una forza negli occhi, con una capacità di ripartire senza scoraggiarsi e di cercare di maneggiare il presente o avvicinarsi alla modernità che faceva impressione, persone capaci di seppellire i propri morti e guardare al domani con incredibile candore. Un esempio per tutti, e più che per altri per noi, occidentali che eravamo lì a cercare di dare una mano. L?uomo in condizioni disperate e di estrema incertezza sa trovare risorse che non esito a definire sovrumane. Vita: Che idea si è fatto dell?intervento umanitario dell?Onu in Afghanistan? Albinati: Una e semplice: senza l?intervento umanitario dell?Onu un bel po? di afghani in più ora sarebbero seppelliti sotto due metri di terra a fare compagnia alle sabbie del deserto. E non parlo di piccoli numeri. Lì senza l?Unhcr sarebbero morti centinaia di migliaia di altri esseri umani. Vita: Come si aiuta oggi l?Afghanistan a rinascere? Albinati: Devono tornare i cervelli dall?estero, i professionisti e chiunque abbia voglia e fegato per ricominciare non da zero ma da meno 10. Questa a me sembra l?unica via cavalcabile di fuga da una situazione disastrosa e di assoluta devastazione. E nel contempo, oltre agli aiuti dall?estero, bisogna che risulti sacro a chi interviene in Afghanistan l?impegno a trovare un sistema per salvaguardare la sua sovranità, senza nessuna ragione neocolonialista o, peggio, caritatevole. L?Afghanistan oggi, lo ripeto, è un Paese da rifare per intero, la situazione stessa dei rifugiati che tornano a casa è critica. L?espressione stessa ?tornare a casa? è un?espressione retorica, perché la casa per molte persone non c?è più. Quindi, innanzitutto è necessario ricostruirle, restituire l?acqua potabile e poi ricominciare con le normali funzioni di una società civile e viva: il lavoro, lo studio e le scuole. Per esempio, un aspetto da non sottovalutare riguarda il restauro delle scuole, a cominciare dal reclutamento degli insegnanti. Certe volte si riescono anche a rimettere in piedi le scuole, a mettere delle tende, ma gli insegnanti non ci sono. Molta parte dei professori, delle persone qualificate sono scappate. Questo è un problema che investe l?intera società e che, paradossalmente, richiede ancora più risorse che una situazione di espatrio. In fondo, assistere i rifugiati nei campi, all?estero, è meno costoso che ricostruire un Paese per i rifugiati che tornano a casa. Vita: C?è un?immagine dell?Afghanistan che per lei sia diventata emblematica della realtà che oggi sta vivendo quel Paese? Albinati: Un villaggio, Dewana, a pochi chilometri da Kabul, completamente costruito, o ricostruito, con pezzi di bombe: intere pareti fatte di vecchie bombe russe, un ponte su un fiumiciattolo fatto con alcune grosse bombe aeree, le donne che andavano in giro usando come secchi dei proiettili di artiglieria segati e riempiti d?acqua. Una cosa incredibile a vedere che però testimonia come questa gente per vent?anni abbia imparato a sopravvivere nelle situazioni più inimmaginabili. Vita: Da Rebibbia all?Afghanistan: ha la vocazione per scelte un po? estreme? Albinati: Lo scrittore ha bisogno di radicalità, deve frequentare l?estremo se vuole avere cognizione del normale e dell?apparente ordinario. Penso a Viaggio al termine della notte di Céline, a come sia un testo che è lunghissima ricognizione dentro le proprie ossessioni, dentro le proprie viscide interiora, e a come resti per me un esempio di scrittura etica e civile. Personalmente resto affascinato dalle storie di violenza e di riscatto con una facilità inimmaginabile e sento che queste due tematiche sono cuore e polmoni del mio scrivere. Per questo frequentare situazioni nelle quali trovo scritte sulla carne della gente salvezza e perdizione, nel senso umano del termine, mi conquista e mi stupisce sopra ogni altra cosa. Vita: Un?ultima domanda: che fine ha fatto l?impegno sociale e politico in letteratura? Albinati: Personalmente ho un?idea precisa della politicità: essa è un impegno diretto, è un fare fisico, è un agire in prima persona sulla realtà. Ho un?immagine interventista e non morale della politica e non riesco a liberarmene assolutamente né lo voglio. L?unico engagement, il solo impegno serio che riesco a vedere nella scrittura è quello di conoscere il mondo e, lo ripeto, si conosce meglio il mondo laddove c?è più radicalità, più odio e violenza. è un tipo di scuola che ognuno dovrebbe frequentare, senza considerare il fatto che si voglia essere scrittore oppure no. di Luca Volponi


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