Non profit

Non buttiamo via questa voglia di pace

L'editoriale di Giuseppe Frangi in merito alla larga opposizione alla guerra registrata nei Paesi europei.

di Giuseppe Frangi

Gran Bretagna, 89 per cento; Francia, 86; Germania, 87; Irlanda, 89, come l?Olanda; Italia, 79; Spagna, 77; Belgio, 71. Non c?è questione che oggi ottenga più consenso e più unanimità del desiderio di pace. La vecchia Europa è compatta. I sondaggi oscillano di qualche piccolo numero percentuale, a seconda di come la domanda è stata posta: ma sono oscillazioni che stanno sempre sopra i due terzi della popolazione. Persino Paesi che hanno un grande senso di riconoscenza verso gli americani, come la Polonia (che dagli Usa ha appena comperato i nuovi aerei per l?esercito) o la repubblica Ceca, sulla guerra sono per il no. Non vorremmo essere retorici, ma questa posizione compatta e trasversale, più che un fenomeno di costume, ci sembra un interessantissimo segno di civiltà.
Non tutti la pensano così. Gran parte dei commentatori continua, per pigrizia o per servilismo, a pensare che il mondo si sia ancora una volta, com?è successo tante altre volte negli ultimi 50 anni, a dividersi tra pacifisti e bellicisti, tra utopisti e realisti. I primi sognano e si salvano l?anima, gli altri intervengono e aggiustano, a loro modo, il mondo.
Ma stavolta è davvero un po? difficile far tornare i conti. Pensare che l?Europa sia diventata un continente di pacifisti, dipingere masse di giovani e vecchi, di disoccupati e di manager, nella solita versione parodistica dei signor ?né né? è talvolta molto difficile. Le cose, infatti, sono molto più semplici. Per una volta, nella coscienza comune, ha prevalso un sentimento ovvio, ragionevole, assolutamente civile: cioè che la guerra non è un valore e che per tirarla in gioco ci vogliono vere ragioni. E questa volta o le ragioni non ci sono, o non sono per nulla chiare.
Ma forse la spiegazione è più interessante e radicale. Qualche mese fa il grande poeta Mario Luzi, cattolico, politicamente libero, aveva detto, dall?alto dei suoi 90 anni, che del fenomeno new global gli interessava solo una cosa: quella nuova «grammatica mentale» per cui la pace era stata assimilata come valore condiviso. Aveva visto giusto. Perché i sondaggi ci confermano che la pace non è più scelta di schieramento, ma qualcosa di più profondo. Come un patrimonio che non può essere violato per delle cause pretestuose, o, peggio, per interessi oscuri. Un patrimonio che non può essere strappato dalla vita degli uomini. E il comportamento lineare e compatto della Chiesa, non fa altro che ribadire questo principio elementare .
Se le cose stanno così, bisogna prendere sul serio questo segnale. Invece di perdere tempo nelle solite decrepite dialettiche, nei soliti noiosissimi teatrini, è più sano chiedersi come e che cosa costruire sulla base di un consenso così civile e così unanime. Perché la pace può essere un sentimento vago, ma può anche diventare una grammatica per costruire rapporti nuovi. Per intrecciare reti inedite, per accendere un?attenzione ai bisogni, per rimettere la persona al centro del vivere.
Non prendiamo sottogamba questo sentimento così semplice e oggi così comune. Non sciupiamolo sotto la spinta di estremismi, da qualunque parte essi vengano. Coltiviamolo, aiutiamolo a crescere, a rafforzarsi, a diventare esperienza di umanità diversa. Questo è il vero impegno che ci attende.

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