Politica

Fini alle Acli: subito la nuova cittadinanza

Ecco l'intervento del presidente della Camera a Perugia

di Redazione

Ringrazio le Acli e il presidente Olivero per avermi invitato, non solo per l’interesse del tema, ma anche – alla luce della relazione ascoltata – dell’oggettiva necessità di un confronto su questi temi che alzi, se si riesce, il tono del dibattito politico-culturale e soprattutto individui ciò che è necessario fare anche in Italia per preparare quel futuro che già bussa alle nostre porte.

Sono d’accordo con le Acli e con Olivero quando dice che ridefinire il concetto di cittadinanza è una delle grandi sfide della democrazia contemporanea. È una sfida che possiamo vincere solo se riusciamo ad acquisire la consapevolezza dei processi in atto su scala planetaria. Sono processi non solo globali, ma di lunga durata, non transitori, destinati a determinare mutamenti strutturali.

Lo dico chiaramente: è illusorio credere che quel che accade all’inizio del III millennio sia destinato a passare senza lasciare tracce profonde nella nostra società e nel rapporto con la nostra società occidentale.

Ci deve dunque essere questa consapevolezza, senza perdere di vista quei valori fondamentali che hanno permesso alla nostra patria, attraverso la Costituzione, di riconoscere a tutti i cittadini i diritti sociali, i diritti civili, i diritti politici.

Così impostata, credo che sia una sfida per ogni cultura politica, una sfida che qualcuno a priori rifiuta e, come ho tentato negli ultimi tempi di porre al centro del dibattito politico-istituzionale, una sfida che richiede di confrontarsi anche le altre culture politiche per comprendere se su queste sfide nuove, una volta esaurite le vecchie appartenenze è possibile, senz’altro è necessario, giungere a nuove sintesi e a nuove strategie condivise.

La storia recente, non solo in Italia, ci insegna che la cittadinanza ha rappresentato il fondamento etico, giuridico e politico per la progressiva inclusione delle fasce più deboli della società nel sistema delle tutele e delle opportunità.

In questo senso, T. H. Marshall affermava, nel 1950, che la stessa cittadinanza era un concetto dinamico e tale da consentire a un numero crescente di persone il raggiungimento di standard più elevati di vita.

Negli ultimi decenni, il presupposto politico-giuridico di questa concezione è stata l’appartenenza del cittadino alla comunità nazionale. Il presupposto sociale è stata la partecipazione al cosiddetto welfare state. Insomma, per il cittadino ai diritti corrispondono i doveri. Anna Harendt, in una lapidaria espressione, dice “il diritto di avere diritti è ciò che distingue il cittadino dall’apolide”. Sintetica ed efficace.

Il modello tradizionale di cittadinanza deve oggi confrontarsi con ciò che oggi ha fatto irruzione nel terzo millennio e dopo la caduta del Muro. Mi riferisco alle grandi migrazioni e la diffusione della consapevolezza, sempre più diffusa per fortuna, del valore universale dei diritti dell’uomo. Rispetto a qualche tempo fa, per fortuna, questa consapevolezza è molto più ampia.

Credo che entrambi i fenomeni impongono di riflettere sul concetto della cittadinanza nel suo stretto legame con la nozione di comunità nazionale.

Sotto questo profilo c’è da chiedersi se la nozione di cittadinanza , per come è stata concepita e riassunta dal nostro legislatore, sia sufficiente per favorire l’integrazione dei lavoratori stranieri e delle loro famiglie nel tessuto sociale.

Tendere all’integrazione è un dovere primario delle politiche. A meno che non si abbia nei confronti della tematica migratoria un approccio più riduttivo che non condivido e che pur fa capolino nel dibattito, di chi non potendo negare l’evidenza è cosciente della insostituibilità, in alcuni casi, del lavoratore straniero nella nostra società, ma in qualche modo spera o si illude di poterne fare a meno nel momento in cui la nostra società dovesse tornare ad essere autosufficiente.

Se non si ha questo approccio, non ci si può limitare a una concezione, che pur ha ampio spazio nel dibattito, che si riferisce all’esercizio dei diritti, all’adempimento dei doveri, a quel giusto tasso di sicurezza che va garantito al cittadino italiano. Il concetto di integrazione è qualcosa di più dell’ordinato vivere nella comunità.

Chiediamoci se la nozione di cittadinanza come originariamente concepita può essere un ostacolo all’integrazione, sia dal punto di vista giuridico che politico. Perché se  l’identità collettiva storica di un popolo è stata finora il presupposto per il godimento dei diritti e per l’assuzione dei corrispettivi doveri, una tale condizione non può essere invocata automaticamente nel caso di persone provenienti da altri Paesi. Mi piace esprimere questo concetto apparentemente complicato con un’espressione più semplice. Nella maggior parte delle lingue europee il significato etimologico della parola “patria” è “terra dei padri”. È evidente che se vogliamo integrare lo straniero non possiamo chiedere a colui che diventa cittadino italiano ma ha dei “padri”, una famiglia, in altri Paesi di riconoscersi in questa idea di patria.

In questo senso Michael Walzer solleva un problema reale quanto complesso: tutte le norme che regolano l’appartenenza politica, incluse quelle di cittadinanza, sono decise e modificate dai membri della comunità civica; ma gli stranieri non possono partecipare alle decisioni collettive che riguardano la loro condizione di vita, compresa la loro possibile inclusione in tale comunità. Questo perché i diritti degli stranieri sono tutelati dal principio generale di eguaglianza che impedisce ogni forma di discriminazione nella fruizione dei diritti civili e sociali. Tuttavia, come è noto, tale garanzia non comprende l’esercizio dei diritti politici.

Ci troviamo di fronte a una contraddizione che non credo si possa negare a priori. Può essere comodo per qualcuno far finta di niente e non parlarne ma il problema c’è.

I dati più recenti dell’Istat, che io considero attendibili, stimano in circa 4 milioni di individui, il 6,5 % del totale dei residenti, la presenza straniera in Italia. Percentuale destinata crescere nei prossimi anni, a meno che non si reputi illusoriamente che alcune di quelle mansioni sociali che oggi sono prevalentemente affidate a lavoratori stranieri possa tornare ad essere domani appetibili per i nostri figli.

Quindi, c’è da chiedersi: fino a quando la nostra democrazia potrà permettersi di escludere dai processi decisionali che riguardano tutti, italiani e non, una parte crescente di residenti sul proprio territorio?

È certamente un problema da affrontare con scelte lungimiranti, senza emotività, senza accenti o toni propagandistici, senza pensare alla prossima consultazione elettorale, tenendo conto dei diritti delle persone, la tenuta sociale, il profilo delle identità collettive che rimane ovviamente la base della coesione all’interno della comunità politica.

È un problema da affrontare perché per certi aspetti è entrato in crisi il legame tra ethnos e demos, che pareva indissolubile fino a qualche tempo fa. Abbiamo l’obbligo di ridefinire il demos riformulando, nello stesso tempo, il concetto di ethnos (inteso come comunità storica di destino), che non va concepito come un’entità chiusa ed esclusiva, ma come un mondo dinamico e aperto agli arricchimenti di altre culture.

C’è una bella espressione di Seyla Benhabib, che non cito a caso: «La presenza di altri che non condividono le memorie e la morale della cultura dominante sollecita il legislatore democratico a riformulare il significato di universalismo democratico. Ben lungi dal comportare una disgregazione della cultura nazionale, sfide di questo genere ne mettono in evidenza la profondità e l’ampiezza. Solo le comunità politiche saldamente democratiche sono capaci di questa riformulazione universalistica, attraverso la quale rimodellare il significato del loro essere popolo».

È alla luce di questa impostazione culturale e politica, che deve avere delle buone radici, che possiamo interpretare meglio la scelta coraggiosa di alcuni Paesi europei (Danimarca, Svezia, Finlandia e Olanda) di estendere agli stranieri il diritto di voto in occasione delle elezioni amministrative. Un’ipotesi dibattuta con grande passione anche con Amato in occasione della Convezione europea.

Una scelta che tende ad avvicinare la cittadinanza sociale a quella politica, nonché a fornire, attraverso la partecipazione alla vita democratica, nuove opportunità di integrazione ai lavoratori stranieri.

Nella stessa logica culturale, va considerata la scelta della Germania che, nel 1999, ha cambiato la legge sulla concessione della cittadinanza, rendendo questa accessibile agli immigrati di seconda generazione.

Non c’è dubbio che anche in Italia, almeno le persone più avvedute, avvertono da tempo la necessità di rivedere la legge sulla cittadinanza che risale al 1992. Ne sono testimonianza le diverse proposte di legge che, da qualche legislatura, sono al vaglio delle competenti commissioni parlamentari. Ne è certamente buona testimonianza ciò che Giuliano Amato ha fatto nella precedente legislatura. In particolare, una delle più recenti presentate, la numero 2270, a firma dell’on. Sarubbi e dell’on. Granato, uno del Pd e l’altro del Pdl, elemento che in questo strano Paese desta almeno la curiosità dei giornali. Dalla relazione di questa proposta traggo un dato sulla cittadinanza come indice di integrazione: dicevamo che in Italia sono 4 milioni i residenti stranieri, in Francia sono circa 4, 9 milioni, più di 7 milioni in Germania, più di 5 milioni in Spagna. Il numero di cittadinanze riconosciute in Italia, a fronte di questi dati, nel 2005 è stato di 19.266 stranieri, in Francia di 154.827, in Germania di 117.241, in Spagna di 48.860. Se guardiamo i numeri, se la cittadinanza è concepita come indice di integrazione, non si da corso solo a politiche come quelle di oggi di tipo burocratico, automatico e amministrativo: in una logica concessoria, dopo 10 anni e una lungua trafila, diventi cittadino. Altri, con un numero di stranieri di gran lunga maggiore del nostro, si ragiona in modo diverso: individuano nella cittadinanza uno dei fondamentali fattori dell’integrazione.

È evidente che anche per noi la questione diviene strategica se si pensa ai giovani immigrati; anche qui, qualche numero: nell’anno 2007/2008 erano 574mila in Italia, ossia il 6,4% della popolazione scolastica.

Perché dobbiamo oggi preoccuparci di questi figli di immigrati e pensarli come nuovi italiani? Perché o non conosciamo quasi nulla della nostra storia italiana, oppure non possiamo negare che illusorio ritenere che lo straniero nel momento in cui si trasferisce per necessità altrove non tenda a mettere le radici nel Paese in cui si trasferisce. Quanti nostri emigrati se ne andarono, perché spinti dal bisogno, a lavorare altrove, però poi hanno messo su famiglia, hanno messo al mondo dei figli, in qualche modo hanno dato vita a delle relazioni sociali. Si sono integrati, e integrarsi è qualcosa di più che avere il lavoro, pagare le tasse, avere il domicilio, rispettare il vigile e salutare in modo ben educato l’avventore in un bar… è indispensabile pensare oggi ai ragazzini, pensarli come nuovi italiani. Quindi, è giusto pensare tra le modifiche uno ius soli, se volte, temperato. Se penso all’Italia di domani, sento potenzialmente “più italiani” i recenti campioni europei juniores di cricket, uno sport poco tradizionale da noi – sono tutti figli di pakistani, bengalesi, indiani, ma vivono qui, studiano qui, vanno a scuola qui, hanno vestito l’azzurro, hanno cantato l’inno, si sentono già italiani oggi (e quelli sì che parlano dialetto… vi sarà capitato di sentir parlare il noto calciatore Ballotelli in bresciano stretto) – dei nipoti di quei nostri emigranti che a centinaia di migliaia bussano alle nostre ambasciate a Buenos Aires e Brasilia, per chiedere la cittadinanza italiana, avendo cognomi come Rossi, Marchi etc, ma non parlano una parola della nostra lingua, se gli chiedi chi è più a nord tra Palermo e Trieste non lo sanno – De Gasperi per loro è lo stopper di qualche squadra di calcio – e chiedono la cittadinanza, non perché si sentono figli di una patria comune, ma perché con un passaporto di un Paese dell’Unione è più facile, per esempio, entrare negli Stati Uniti, grazie a uno ius sanguinis

Anche qui, un ruolo fondamentale ce lo ha la scuola, intesa davvero come agenzia pedagogica, una scuola che non insegna soltanto la lingua (sapete che in Germania c’è l’esame di padronanza della lingua tedesca, proprio perché se si vuole diventare cittadini di un Paese bisogna in qualche modo saper padroneggiare la lingua). La scuola è uno dei punti centrali in una logica di politiche davvero volte all’integrazione. Senza parlare – lo ha già fatto Olivero nella relazione – a tutte quelle politiche di tipo sociale, nel campo del lavoro, dei ricongiungimenti familiari. Così come uno dei fattori fondamentali per politiche davvero di integrazione è quello relativo al confronto tra le comunità etnico, e in alcuni casi etnico-religiose, e lo Stato, inteso in quella dimensione laica. È innegabile che quelle comunità se non si confrontano con le altre comunità, a partire da quella per antonomasia in Italia che è quella cristiano-cattolica, non si riescono a metter in campo quelle politiche di riferimento che si basano per l’appunto sul riconoscimento del valore universale della dignità della persona umana e della libertà della medesima. Da un punto di vista concettuale, la risposta è assai meno complicata di quello che può apparire. Però ci vuole la consapevolezza della necessità di agire in questo senso.

Insomma, siamo di fronte a una sfida nuova e doverosa che deve vedere protagoniste tutte le culture politiche, in un confronto di idee – l’Italia è un Paese in cui a volte ci si confronta con toni inusitati per asprezza, su ciò che meriterebbe essere a volte tralasciato, e al contrario poi non ci si confronta su ciò che può costruire il presente e il futuro – con un po’ di modestia intellettuale. Non c’è da inventare nulla!

Perché è nella migliore tradizione europea, da secoli, avere ben chiaro qual è la stella polare in questo campo. Ho trovato un’espressione di Tocqueville, che lascio a suggello del mio intervento, per dimostrare che per me da questo punto di vista si tratta di tornare all’antico. Le sfide della modernità si vincono quando si hanno solide radici. Si discute tanto della differenza tra laicità e laicismo… discutiamo qualche volta della differenza tra modernità e modernismo… Tornare all’antico e magari rileggere Tocqueville: «Esiste un amor di patria che ha la sua fonte principalmente in quel sentimento impulsivo, disinteressato e indefinibile, che lega il cuore dell’uomo ai luoghi in cui egli è nato. Questo amore istintivo si confonde col gusto delle antiche usanze, col rispetto degli antenati e le memorie del passato; coloro che lo provano amano il proprio Paese come si ama la casa paterna”. “Esiste però – scriveva sempre Tocqueville ­– un diverso amore di patria, più razionale, meno generoso, si sviluppa con l’aiuto delle leggi, cresce con l’esercizio dei diritti e rivendica una partecipazione attiva alla vita della Polis, indipendentemente dalla situazione di origine di ciascun individuo».

Se oggi qualcuno lo chiama “patriottismo repubblicano”, se oggi – cito Calamandrei – si ricorda la Repubblica come casa e famiglia non solo per gli italiani, che sono nati qui, ma anche per i non italiani, a ben vedere non scopriamo nulla di nuovo. Torniamo a quei valori antichi che proprio perché antichi non passano mai di attualità col passare delle generazioni.

 

 

 

 


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