Mondo

Anche il business italiano scappa dallo stato-caserma

I rapporti (e gli affari) con il Paese dei profughi in fuga

di Christian Benna

Nell’ex colonia, dopo anni di contratti redditizi, è iniziata
la ritirata dei nostri imprenditori. E a difendere il dittatore
è rimasto solo un assessore lombardo… Frecce tricolori a Tripoli, dolce ritirata da Asmara. Nell’Italia degli sbarchi e dei respingimenti, del dramma del naufragio del barcone carico di 78 eritrei, il governo di Roma rimescola le carte del suo passato coloniale. Strette di mano in Libia, una spider nuova fiammante per i 40 anni di potere del leader Muhammar Gheddafi, inaugurazioni di strade e di ponti, contratti di gas e petrolio. In Eritrea, colonizzata dagli italiani nel 1879, dove la colazione ha ancora l’aroma del cappuccino, il pranzo di spaghetti al ragù e lo sport nazionale è il ciclismo sognando i Bartali e i Coppi, inizia il fuggi fuggi. C’è un dittatore di ferro ad Asmara, Isayas Afewerki, pronto a finanziare le coorti islamiche in Somalia pur di ostacolare i piani egemonici sulla regione dell’Etiopia, e ce n’è un altro in Libia, ricco di risorse naturali, ma capace di trattare con l’Occidente.

Business is business
Anche dove, come ad Asmara, la gente li chiama ancora affari, parla italiano, oltre al tigrino e all’inglese, e pensa al Belpaese come a un punto di riferimento. Ma sui ponti in restauro di Asmara, magari ancora intitolati a qualche generale sabaudo, svetta la bandiera giapponese. Il governo di Tokyo ha finanziato alcune opere: in cambio ha ottenuto le esportazioni di auto (Toyota, Nissan) nel Paese che fu della Fiat Tagliero e garanzie di importazioni di materie prime. Non che l’Italia non ci abbia provato. Il dolce mattino di Asmara al Bar Roma come all’Hotel Torino, così diverso dalle proteste anti italiane di Bengasi, è stato assaporato da gruppi ben nutriti di imprenditori italiani. Nel 2005 il ministro per il Commercio estero, Adolfo Urso ha lanciato qui, nella capitale eritrea, la bozza del suo «Progetto Africa».
Nel Paese africano, il secondo più militarizzato al mondo (200mila soldati su 3,5 milioni di abitanti), dietro solo alla Cina, già operavano imprese di costruzioni. Paolo Berlusconi, con la sua Italcantieri, progettava di costruire 5mila villette a Massaua cercando di cogliere l’onda della scoperta del turismo di massa sul Mar Rosso. Il gruppo tessile bergamasco Zaimbati ha aperto una fabbrica da 2.600 posti di lavoro per sfornare camicie e indumenti di cotone; la Technobrake produce impianti frenanti, mentre Rossi & Catelli, azienda di macchinari agricoli di Parma, ha installato tre impianti per la lavorazione di pomodoro, olio e soia. Lungo la scia del ritorno in Eritrea sono arrivati poi cementieri e marmisti: la Gedem, la Piccina spa e la Mordenti.
Afewerki, il presidentissimo, come il collega Gheddafi non disegna però il coup de théâtre. E tre anni fa si innamora della villa del re della birra eritrea, Riccardo Melotti, tanto da farlo sloggiare con le maniere forti. Imbarazzo della Farnesina, intenta a tessere il filo di rinnovate buone relazioni, urla dai banchi della sinistra all’opposizione perché il governo tratta con i despoti. Tant’è che tra gli imprenditori italiani d’Eritrea c’è poca voglia di parlare di business, preferendo il low profile del «sbaracchiamo tutto e ce ne torniamo a casa». I rubinetti delle società pubbliche per gli investimenti esteri sono chiusi.

Retromarcia innestata
L’Eritrea è pure uscita dal «Progetto Africa» del viceministro Urso, preferendole i dirimpettai riottosi dell’Etiopia. «Si capisce», commenta un imprenditore italiano da anni ad Asmara, «la svolta dittatoriale di Afewerki sta abbracciando l’islamismo, sponsorizzando le coorti islamiche. La metà della popolazione eritrea è cristiana, ma incomincia a subire la mano repressiva del governo». La retromarcia è inesorabile. «Un Paese in cui manca tutto», dice un altro imprenditore italiano, anch’egli chiuso nell’anonimato per ragioni di sicurezza, «mancano benzina e gasolio, così come le infrastrutture. E chi sgarra o protesta finisce, nel migliore dei casi, nelle patrie galere». Alle accuse di dittatura feroce Pier Gianni Prosperini, assessore allo Sport e ai giovani della giunta lombarda, nonché portavoce del governo eritreo in Italia, ribatte duramente. «Macché despotismo. La mia famiglia ha vissuto a lungo in Eritrea. E i legami di amicizia che ancora mi uniscono al Paese africano mi hanno portato a questo incarico. Ad Asmara convivono in pace ebrei, cristiani e musulmani. Chi sbarca sulle nostre coste è solo un traditore, renitenti alla leva. Vero è che l’Italia fa troppo poco. Anzi quasi niente. Come nulla ha fatto per gli ascari, i combattenti eritrei nella campagna abissina e contro gli inglesi».


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