Cultura

Mr Bloom, non è bello far l’agiografo di se stessi

Recensione del libro "Il Genio" di Harold Bloom.

di Domenico Stolfi

Per Harold Bloom la letteratura è una religione. E, come ogni religione che si rispetti, ha il suo canone, le sue divinità e i suoi santi. Su tali basi da qualche anno Bloom, con uno zelo da far invidia al papa, s?impegna in una forsennata opera di canonizzazione che salvi i grandi poeti e scrittori occidentali dal relativismo culturale della critica postmoderna. Dopo il pomposo Canone occidentale è ora la volta del monumentale Il genio (Rizzoli, 945 pagine, 26 euro). Se è condivisibile la battaglia di Bloom contro la censoria messa in mora dell?estetico in nome del politically correct, espressione del “risentimento” verso l?anarchica, intollerabile libertà della scrittura, è francamente problematico, e a volte risibile, rispondere a questa deriva postmoderna facendo della letteratura una gnosi sincretistica. Bloom, innalzando agli altari della sua privata religione letteraria cento santi geniali (da Dante a Shakespeare, da Montaigne a Emerson, da Cervantes a Proust), sostiene (si fa per dire) il suo discorso con continui riferimenti cabalistici, valentiniani, millenaristi e angelogici: un polpettone pseudo-mistico che ci dice molto di più sulle sue predilezioni e idiosincrasie che sui geni di cui pretestuosamente si occupa. Bloom, che è stato un critico di valore (Agon e l?Angoscia dell?influenza furono saggi molto acuti), oggi si è ridotto al ruolo di agiografo di vati e romanzieri e, quel che è peggio, di se stesso.

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