Economia

Boom e banche sane. Beirut ringrazia l’etica

Perché in Libano il credit crunch non è arrivato

di Christian Benna

Molta prudenza negli investimenti, regole di stampo islamico contro la speculazione, una fonte di liquidità costante in arrivo con le rimesse. E il Paese dei cedri
vive un’inaspettata crescita I n Libano non piovono subprime. I missili dal cielo sono qualcosa più che un ricordo, autobombe esplodono ciclicamente e la stabilità politica resta appesa a un filo. Ma nel Paese dei Cedri, colpito da guerre a ripetizione, l’ultima nel 2006 con Israele, non si respira quel clima da post conflitto che ammorba ancora l’aria in tutto il pianeta. Un mondo che dopo l’abbuffata finanziaria e speculativa si sveglia alleggerito di 920 miliardi di dollari. A tanto ammontano solo le svalutazioni e le perdite del settore bancario. Nel suo complesso l’universo parallelo delle Borse ha ingoiato qualcosa come quattromila miliardi di dollari. Bruciati per sempre, deprimendo l’economia reale. A Beirut no.

Redditività, + 26,8%
Nell’anno del credit crunch – lo rivela il report di Audi Bank – le banche libanesi festeggiano una stagione di record: redditività in crescita del 26,8%, depositi arricchiti di una dozzina di miliardi di dollari in aumento del 13%, insolvenze della clientele ferme all’1,4% e asset pari a 114 miliardi di dollari. Il livello di liquidità delle banche è pari al 51% delle disponibilità contro il 30% delle banche mondiali.
Gli istituti di credito in Libano tirano la ripresa e stimolano una crescita che non si vedeva dagli anni 90. Il Pil procede al galoppo balzando dell’8,5%, i turisti ritornano a visitare il Paese (+35%) e il settore delle costruzioni sta rimettendo in piedi i ponteggi (+31%). Nuovo miracolo del Paese dei cedri. Possibile? E come? Lo staterello peggio assortito del Medio Oriente, diviso da 18 etnie e gruppi religiosi, retto da un repubblica semipresidenziale tra le più litigiose al mondo, sempre in tensione tra la protezione siro-iraniana e saudita-statunitense, ha vinto la sua battaglia economica grazie a due soli fattori: tante regole e i risparmi degli emigrati all’estero.
A Beirut la Banca centrale, diversamente da altrove, ha posto fermi paletti alla finanziarizzazione delle banche locali. Divieto di acquisto di titoli sui mutui subprime, zero cartolarizzazioni spericolate sugli immobili e derivati messi all’indice. L’etica della prudenza innanzitutto nel segno della finanza islamica. E anche sulla leva del debito, le banche libanesi hanno avuto le mani legate. Libere di partecipare ad investimenti immobiliari, ma solo fino al 60% del valore della commessa. Vale a dire che sul mattone, devono essere anche gli imprenditori a mettere i quattrini. Così sugli investimenti finanziari.
Il risultato è un settore del credito forse poco dinamico, ma con in cassa una montagna di liquidità, che finisce in prestiti “sicuri” alle famiglie, alle piccole e medie imprese. I depositi sono l’altra manna che fa correre il Libano. Il 20% del Pil dipende dalla rimesse, dai soldi (circa sei miliardi di dollari) inviati dall’estero dagli emigrati. Si tratta della percentuale procapite, su 4 milioni di abitanti, più alta al mondo.

Dove sta il segreto
Secondo Giacomo Goldkorn, direttore del centro studi Equilibri.net, il successo controcorrente del Libano va letto «nelle regole imposte dagli accordi di Doha, a seguito del conflitto con Israele del 2006, e recepite dalla banca centrale in maniera molto stringente sulla base dei dettami della finanza islamica. L’attenzione ai motivi etici ha chiuso le porte alla speculazione pure in un contesto di diffusa corruzione e in un terreno di forte tensione per tutta la regione. Semplici regole che stanno rilanciando un Paese come una star dell’economia mediorientale».

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