Non profit

L’Aquila ground zero

di Riccardo Bonacina

A quattro mesi dal sisma,
la città non è ancora uscita dall’emergenza.
Le istituzioni non ispirano fiducia. E il volontariato?
Corre il rischio di esser soffocato dalla preponderanza della Protezione civile.
Eppure qui il terzo settore
si gioca una grande scommessa: rimettere in moto una comunità.
Saprà vincerla?
In un convegno di geodinamica che si tenne a L’Aquila dal 4 all’8 settembre del 1887, gli studiosi invitarono a “costruire meglio” e con più attenzione in una città che dal 1280 (il primo di cui si ha documentazione) ad oggi vive eventi sismici ogni poche decine d’anni. Mai appello e mai storia furono più inascoltati.
L’Aquila arriva al 6 aprile 2009 non avendo mai recepito non solo i dati della storia, i racconti dei più vecchi e gli appelli che arrivano dai secoli scorsi, ma addirittura avendo ignorato i dati dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia che nella mappatura della pericolosità sismica in Italia sentenziò per la città il massimo rischio. Da cui la conseguente deliberazione del governo: ordinanza n. 3519 del 28 aprile 2006, che recepisce la mappatura del rischio sismico dell’Ingv dove la totalità della provincia viene classificata di “rischio 1”. La Regione Abruzzo non recepì: modificare il grado di rischio sismico avrebbe comportato più costi per l’edilizia, più spese di costruzione, più ferro, più cemento. E criteri per costruire edifici e palazzi con maggiore rigore tecnico edilizio e vincoli più restrittivi. Aumentare il rischio sismico voleva anche dire, per il settore immobiliare, dover abbassare i prezzi per metro quadro degli appartamenti non costruiti a norma. Meglio lasciar perdere in una provincia che vive di rendita immobiliare, quella potente delle 400 imprese edili del territorio (300 imprese iscritte all’Ance e un altro centinaio fuori, una concentrazione impressionante) e quella molecolare, individuale, sviluppatasi grazie a decine di migliaia di studenti fuori sede in cerca di un alloggio.

Le 3.32 del 6 aprile
Così, nell’incoscienza, si arriva alle 3.32 dello scorso 6 aprile, quando una scossa di magnitudo 5.8 della scala Richter con una profondità di 8,8 chilometri e un’accelerazione spaventosa che sviluppa una forza devastante, collassa l’intera città. Quella notte, quasi 100mila persone escono di casa in 20-30 secondi. In 40mila abbandonano la città nel giro di 36 ore. In pigiama e con le poche cose che sono riuscite a recuperare. Chi aveva un mezzo in maniera spontanea, coatta per i più sui pullman organizzati dalla Protezione civile e indirizzati verso la costa adriatica. Pochi giorni dopo, al netto degli studenti fuori sede (oltre 13mila su 27mila iscritti all’università) praticamente tutta la popolazione dell’Aquila è sfollata: le persone alloggiate dalla Protezione civile sono 66.353.
Il centro storico dall’8 aprile è chiuso e presidiato dall’esercito che ne tutela la sua integrità di città fantasma. Già un’intera città, non un borgo, il suo cuore pulsante, i negozi, i portici, la piazza del Duomo, persino il simbolo dello Stato (il Palazzo del Governo sede della prefettura, immagine emblema del terremoto) si fissano nella terribile istantanea che nessuna mano umana ha mai scattato. Una catastrofe dalle proporzioni record nel terzo millennnio: 300 morti, 1.500 feriti, un’intera città sfollata e nella diaspora, istituzioni locali senza più sede, attività produttive compromesse, reti infrastrutturali distrutte, reti familiari e sociali frantumate.

Un’emergenza lunga 120 giorni
«Sono ormai trascorsi mesi dalla notte della tragedia, della disperazione, della tristezza; ancora tutto è fermo in un pauroso ed inquietante immobilismo. Nonostante i tanti proclami che non servono a nessuno se non a creare un clima di sfiducia e presa in giro degli aquilani che, purtroppo, sono ancora al punto di partenza. Una rivista come la vostra che si occupa di comunità non può non trovare interessante cosa sta accadendo ad una comunità di 100mila persone. Perché quello che è accaduto è un vero e proprio “laboratorio sociale a cielo aperto”. Perché “occhi esterni” possano dare chiavi di lettura per il futuro dell’Aquila». Questo l’inizio di una lettera inviata in redazione da Roberto Museo, direttore di CSVnet, coordinamento dei 71 Centri di servizio del volontariato italiani, e aquilano sfollato. Torniamo, quindi, a L’Aquila dopo esserci stati all’indomani del sisma. Ci torniamo con una domanda suggerita da Michel Foucault quando scrive: «La debolezza produce il governo, i bisogni la società civile».
Ci chiediamo: dopo quattro mesi gli aquilani si saranno emancipati dalla condizione di debolezza? Il terremoto è punto di rottura violento e traumatico tra ciò che non c’è più e ciò che ancora non si sa come sarà. Tra ciò che non c’è più (la costruzione di una vita che torna all’improvviso al ground zero) e ciò che ancora non c’è (Che lavoro farò? Dove? E la scuola dei figli? E la casa?), c’è l’individuo in un’assoluta condizione di bisogno. Una condizione di debolezza e di estrema fragilità che necessitano innanzitutto di protezione. Un tetto, il cibo, la soddisfazione dei bisogni primari.

La potenza di Bertolaso
Ma per pensare al futuro occorre che si passi, meglio prima che poi, dal bisogno di tutela alla tutela dei propri bisogni, giacché solo la coscienza dei propri bisogni può sviluppare l’autodeterminazione sul proprio futuro. Ma qui è davvero difficile, ancora oggi, pensare al futuro.
A L’Aquila, a quattro mesi dal terremoto, si vive ancora in una condizione sospesa, che ha il colore blu delle tendopoli o le pareti pastello dei residence sulla costa; tra la necessità ancora impellente della tutela dei bisogni primari di una popolazione di sfollati superiore ai 50mila, e la tutela di bisogni privati e collettivi che ancora non hanno forza e soggettività per esprimersi.
Una condizione di sospensione, di limbo, che rischia di prolungarsi all’infinito e di diventare devastante. Perché è difficile uscire dalle tutele e riprendere in mano i bisogni, è difficile perché la terra ancora trema, sia pure in maniera più lieve, ma tanto basta per non dare il coraggio di rientrare nelle case neppure a chi lo potrebbe fare. È difficile per la diaspora di ogni legame e di ogni rete, è difficile perché prendere coscienza del proprio bisogno richiede un minimo di lucidità e si è ancora troppo dentro il terremoto, ci sono i sensi di colpa (tutti ci dicono: quella scossa delle 23,30 dovevamo prenderla sul serio) e la disperazione per tutto ciò che non c’è più. Così L’Aquila e gli aquilani sono schiacciati tra la macchina potente e prepotente della Protezione civile che continua il suo lavoro (di assistenza nelle 140 tendopoli e nei 520 alberghi e residence) e che apre i cantieri dell’Aquila che verrà (checché ne dicano gli aquilani), e lo sfarinamento di identità e soggettività locali (istituzionali e sociali). L’Aquila, a fine luglio, è ancora la miriade di racconti individuali, non si ode nessun racconto collettivo. Del resto come potrebbe levarsi dopo il dispiegamento potente del racconto globale del recente G8? Gli aquilani riconoscono l’efficienza della Protezione civile, eppure non la amano, sanno che la macchina efficiente e persino trasparente se ne andrà come è arrivata, a fine ottobre o poco più in là.
In questi giorni è cominciata l’operazione “recupero beni”, cioè gli aquilani che hanno la possibilità di mettere al riparo cose e arredi che ancora stanno nelle case distrutte o lesionate, possono far richiesta ai Vigili del fuoco per il loro recupero. Così il centro fantasma dell’Aquila si comincia a popolare di qualche famiglia impegnata nell’operazione. Un’operazione straziante, che fa rivivere secondo dopo secondo quella tragica notte e che ricorda il proprio personale ground zero. Così per non piangere troppo, ci si china su ciò che si è salvato. Fosse anche solo un divano, per ripulirlo dai calcinacci. Ma come sarà il domani?

Sfiducia e guerre molecolari
C’è sfiducia generalizzata nelle istituzioni locali (Regione, Provincia, Comune), già si accusano i ritardi nella classificazione dei danni delle case, dei prezzari, dei criteri della graduatoria dell’assegnazione dei nuovi alloggi ancora non definita. Gli aquilani non sono per niente tranquilli sulla delega data al sindaco per il centro storico e qualche assessore provinciale confessa a mezza voce: L’Aquila diventerà un paese di 20mila abitanti.
La storia degli enti locali abruzzesi è storia di giunte in crisi o di presidenti arrestati, di maggioranze mobili e incerottate. La Regione ha un nuovo presidente eletto l’ottobre scorso (il precedente è rinviato a giudizio), la Provincia è in campagna elettorale (elezioni in autunno o in primavera), il Comune è già sotto inchiesta per il primo appalto post terremoto, quello di 50 milioni per lo smaltimento delle macerie.
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