Non profit
il genoma ha fatto crack la vita non è un affare
Quotazioni in caduta libera, futuro incerto
Mancano i ricavi. La corsa ai brevetti non ha generato profitti. Alcune società rischiano il delisting dalla Borsa. In Italia Veronesi ha rinunciato alla quotazione L’elisir di lunga vita ha le ore contate. Almeno questo racconta l’encefalogramma in picchiata – quasi piatto – dei mercati finanziari sui titoli delle società che investono nel genoma, il patrimonio genetico dell’uomo. Correva l’anno 1990 quando parte il progetto di ricerca (Human Genome Organization) guidato da Francis Collins per decifrare il mistero della vita, 30mila geni che caratterizzano la specie umana. Sorpresa ed euforia. La caccia aperta al codice dell’esistenza scatena uno tsunami senza fine di pulsioni e aspettative: farmaci per prevenire – modificando i geni “guasti” – ogni male e ogni disfunzione; la pillola per allungare la vita oltre i 120 anni. Ed è subito scandalo. Perché pubblico e privato si contendono le chiavi della vita. Ma alla fine la spunta il privato, la corporation America. Nel 1998 Craig Venter, titolare della Celera Genomics, pubblica i risultati del sequenziamento del genoma sulla rivista Science. Un successo. E tutti, chiunque abbia un brevetto su un gene in cassaforte, si lanciano in Borsa in attesa di raccogliere i frutti – in contanti – della ricerca. Anche in Italia.
Nella Penisola ci prova Umberto Veronesi fondando Genextra, holding biotech, in collaborazione con il finanziare Francesco Micheli e soci del calibro di Tronchetti Provera, la famiglia Angelucci, Intesa Sanpaolo, Interbanca. Per ora, il progetto Genextra di sbarcare a Piazza Affari entro il 2009 è slittato sine die, l’ultimo bilancio disponibile – il 2007 – si è chiuso con 11 milioni di perdite. La pillola dell’immortalità targata Veronesi può attendere. Anche nel business anticiclico della salute, il gene perde terreno.
Ma va anche peggio su al Nord a Decode Genetics, gioiello islandese del Bio Pharma. Nel mare magnum dei titoli tecnologici del Nasdaq, il titolo di Decode affoga a 0,55 dollari, contro gli 8 di inizio quotazione. Gli studi non mancano. «Scoperto il gene all’origine dei tumori della pelle» e quello da cui dipende la schizofrenia. Eppure ai brevetti non corrisponde una commercializzazione tale da fare cassa e generare profitti per gli azionisti. Per Decode il primo trimestre 2009 si legge in verticale con ricavi in discesa del 41% e 26 milioni di dollari di perdite. In cascina la liquidità scarseggia, non supera i sei milioni di dollari. Il delisting dal Nasdaq è alle porte. E il piano di ristrutturazione – sono in vendita alcuni asset societari – si annuncia doloroso.
Così le genetics-company, per tirare avanti, si tuffano nel “retail”, tra l’araldica e la lettura delle carte. Decode, accanto all’attività business scientifica, vende servizi a privati. Saliva in provetta, incartare il tutto in busta chiusa e spedire il plico a Reykjavik. La società poi, per un migliaio di dollari, scandaglia la storia genetica dell’individuo e rimanda il tutto al mittente. Ma il mercato è agguerrito. Per una manciata di denari in più si possono fare anche previsioni sui rischi nel tempo di contrarre una malattia. Test che 23andMe, Navigenics e Dna Direct compiono anche per soli 100 dollari. I servizi poi sono personalizzati e il costo sale rapidamente. Sui resti di Decode Genetics si è avventata Celera Genomics, i pionieri del genoma capitanati da Craig Venter, anch’essi usciti malconci dalla crisi (il titolo in Borsa è sceso da 15 a 7 dollari e sono sotto di un paio di milioni in bilancio), acquisendo brevetti genetici sulle malattie del metabolismo e su quelle cardiovascolari.
Controcorrente va invece Roche, che ha sborsato la bellezza di 43,7 miliardi per concludere un’opa stratosferica sulla partecipata Genetech, anch’essa vittima della crisi e finita ai piani bassi delle quotazioni Usa. Finché c’è vita c’è business.
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