Cultura

L’ultima madre delle ultime ore

Una riflessione sul fine vita in forma di romanzo

di Redazione

La prima volta che Maria si accorse che Tzia Bonaria usciva la notte, aveva otto anni. «Pochi per comprendere tutto, ma potevano bastare per intuire che qualcosa da comprendere c’era». Lo stesso atteggiamento che Michela Murgia tiene per tutto il libro, una Maria cresciuta, che nelle note ringrazia chi l’ha «costretta a rivedere qualche certezza di troppo sull’accabadora».
L’accabadora è «l’ultima madre», colei che nella Sardegna degli anni 50 raccoglie l’ultimo respiro dei moribondi e anzi aiuta il destino a compiersi, a far uscire quel respiro ultimo, in base a quella legge non scritta per cui «sono maledette solo la morte e la nascita consumate in solitudine». Poteva essere un pamphlet travestito da romanzo: non lo è. Ed è questa la sua forza. Quella per cui Bonaria Urrai può permettersi di dire «mai da allora le era venuto il dubbio di non essere capace di distinguere tra la pietà e il delitto» senza vestirsi di una presunzione maledetta. O anche, in una sorta di immorale consegna ereditaria a Maria, la sua fill’e anima, ammonire: «non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti ritrovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata».
È un mondo piccolo, Soreni, fatto di bocche pronte a parlar di niente. Ha il suo codice morale e le sue regole comunitarie. La Murgia lo pennella vigorosamente, seminando qua e là il suo sardo, rispetto cui è stata «guarita dalla paura». Un velo etnografico intelligente e leggero, che al lettore consente l’agio della distanza. Per scoprire, come vuole l’aletheia greca, che è proprio quel velo a consentire di incamminarsi in quel che veramente pensiamo sul fine vita.

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