Welfare

il dottor h24

Territoriale, preventiva, comunitaria. In molti luoghi è già realtà. Ve la raccontiamo

di Sara De Carli

Centri polispecialistici low cost, consorzi di camici bianchi, assistenza a domicilio: così il non profit anticipa la medicina generale di domani. Un presidio 24 ore su 24… Se fosse un non-luogo, per dirla con Marc Augé, sarebbe un hub. Per quel suo essere un centro unico di ingresso, la comodità di avere una porta e mille destinazioni. Invece è un luogo. Anzi, oggi lo studio del medico di base è l’unico luogo dove fa condensa la fatica di vivere una vita liquida, se non gassosa nella sua precarietà. Un luogo tanto univoco da diventare famigliare e tanto polisemico da accogliere in sé le funzioni lontanissime dell’agorà e del confessionale. Immaginate poi se, nello stesso edificio, due porte più in là, insieme al medico di base si potesse trovare il cardiologo, il dermatologo, lo psicologo, l’oculista, il dentista. Un continuum di competenze, a costi contenuti e possibilmente H24. Una parte di queste prestazioni, poi, partendo da qui arriva addirittura al tuo domicilio. Che la sala d’attesa di un medico sia tutto ciò, oggi è un caso o un desiderio. Domani potrebbe essere un modello d’impresa.

Perché la sanità
Da qualche tempo i segmenti più innovativi della cooperazione sociale lavorano a progetti sanitari. Dire che la cooperazione si sta spostando dal socioassistenziale al sanitario è troppo, ma certo c’è un nuovo interesse nel settore. Il non profit ha anticipato quello che il Libro bianco del ministro Sacconi delinea come frame futuro per la sanità leggera: un’apertura che può sfociare tanto nel franchising low cost sanitario quanto in nuovi modelli, capaci di tradurre i valori in organizzazione e il fare comunità in obiettivo d’impresa.
Tutto dipende dal perché si sceglie di fare impresa in sanità: perché è l’unico segmento di mercato con previsioni di crescita a due zeri o perché ci si è resi conto che la sanità è la nuova casa del welfare, in quanto è a un generico sanitario che arrivano i bisogni dei nuovi soggetti vulnerabili. Privi persino delle parole per dirli. Come spiega Claudia Fiaschi, presidente di Cgm, la cooperazione «non può restare indifferente al fatto che la coperta troppo corta della spesa pubblica lascia fuori il 65% delle famiglie italiane: troppo ricche per stare dentro il Ssn, troppo povere per pagarsi cure private».

Medicina e comunità
La qualità del privato a una tariffa low cost è un tassello del mosaico. Lo scorso settembre a Canegrate (vicino a Milano) ha aperto i battenti Medi-co, un centro polispecialistico creato dal Consorzio Medicina e Comunità. Uno spazio di 800 metri quadrati che raccoglie quindici specialità mediche. Le tariffe sono inferiori del 30% a quelle del mercato, per il dentista del 50%. Il listino è doppio, con un prezzo base e uno per chi ha un Isee basso. Ma il punto di forza è che dentro l’edificio, insieme agli specialisti, ci sono tutti i medici di base di Canegrate, associati fra loro nella “medicina di gruppo”. In questo modo, spiega Dario Cassata, presidente di Cooperho, il consorzio che ha fatto da incubatore per l’iniziativa, «abbiamo un contatto diretto con tutti i cittadini ed è immediato rilevare i bisogni emergenti anche in settori non strettamente sociali o sanitari, come il lavoro o la casa. In questo senso il centro è un luogo di comunità autentico, mette al centro la persona e le crea attorno occasioni per far crescere il suo benessere». Per questo dal prossimo autunno dentro al centro polispecialistico nascerà anche un centro famiglia.

Dall’ospedale al domicilio
Il principio dell’integrazione delle tre leve deve essere un caposaldo della rivoluzione-sanità. Ne è certo Giuseppe Milanese, presidente della cooperativa Osa, che dal 1985 fa assistenza domiciliare in convenzione con le Asl di cinque Regioni d’Italia, dietro gare pubbliche. Oggi conta 1.870 soci lavoratori, 20mila assistiti l’anno e ha chiuso il 2008 con un fatturato di 57 milioni e 1 milione di accessi unici, linguaggio mutuato dal web ma che significa qui un milione di campanelli suonati. «La presa in carico non è mandare un infermiere a casa del malato per un’ora alla settimana», spiega. «È solo l’integrazione fra il sociale e il sanitario che dà al cittadino la percezione della cura: senza, le famiglie si rivolgono ancora all’ospedale». Osa, insieme a Confcooperative e ad alcuni medici di base, sta studiando un modello incentrato sull’assistenza a domicilio che garantisca una copertura H24 di medici, infermieri e operatori sociali fino a casa propria: un servizio non solo per malati terminali o cronici, ma anche, per esempio, per la gravidanza. Si comincia a settembre su Roma con Plexus, un «nuovo consorzio che ha per protagonisti i medici di medicina generale e gli operatori sociosanitari del territorio, in cui vorremmo coinvolgere anche le farmacie», spiega Milanese. «Garantiremo visibilità a una rete, in modo che il cittadino sappia dove può accedere, fa le sue richieste e non debba per forza viaggiare da un nodo all’altro: viaggeranno i dati e gli operatori».
Più in piccolo, un’altra esperienza innovativa è quella di Pontedera (Pisa). Qui la cooperativa Spes – ci spiega il presidente, Stefania Lupetti – forte di dieci anni di esperienza nell’assistenza domiciliare e nella gestione di Rsa, insieme alle Misericordie si appresta ad aprire un poliambulatorio che raccoglierà undici specialità, i medici di base e un Cup. In più stanno studiano una proposta per la Asl locale: gestire i codici bianchi e azzurri del pronto soccorso, cioè quelle prestazioni che non hanno carattere di urgenza ma che costituiscono buona parte del lavoro.

Il Libro bianco, quindi?
Il ministro Sacconi nel suo Libro bianco, prevedendo esplicitamente che nella ristrutturazione della sanità il privato (profit e non profit) avrà un ruolo, ha dato una cornice positiva per queste esperienze. Dal mondo della cooperazione sociale, però, arrivano alcuni “ma”. Il nodo più duro lo evidenzia la Fiaschi: «Il Libro bianco lascia nell’implicito il ruolo dei fondi gestiti dagli enti bilaterali, che riemergerà con i piani operativi. In Italia il 58% della popolazione è occupato e quindi teoricamente protetto. Ma non ho capito come Sacconi prefigura l’accesso alla protezione di base del resto della popolazione».


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