Economia
tradizionale e tipico: il formaggio piace così
Le produzioni territoriali sono amiche dell'ambiente
di Paola Mattei
Minacciato dall’industria che omologa i sapori, dipinto a tinte foschi da dietologi e nutrizionisti, evitato dai maniaci della linea, il formaggio si sta prendendo le sue belle rivincite. Innanzitutto nei numeri, con consumi sempre in crescita dal 2006 (siamo poco sotto i 25 chili a testa l’anno) e una produzione che, sempre nel 2006, ha fatto registrare uno storico “sorpasso” degli italiani sui cugini francesi. Ma non è solo questione di quantità, perché oltre a essere buono per il palato, è anche amico dell’ambiente e della biodiversità: se prodotto artigianalmente, infatti, e nel rispetto dei principi della sostenibilità è un’importante risorsa sociale, economica, paesaggistica e culturale per i territori che lo ospitano.
Ne è la prova l’ultimo bilancio, stilato da Coldiretti, sui prodotti agroalimentari italiani che possono fregiarsi dell’etichetta «tipicità regionale» (caratterizzata da regole tradizionali vecchie di almeno 25 anni e metodiche praticate localmente in modo omogeneo): ben 4.471, di cui il 10% (460) sono formaggi.
Lo sa bene Slow Food, tra gli organizzatori di Cheese, la storica (ha dodici anni) manifestazione sulle «forme del latte» che torna a Bra (Asti) dal 18 al 21 settembre. Punto di riferimento per gli artigiani della filiera lattiero-casearia e per un pubblico di appassionati, Cheese è dedicato quest’anno alla montagna e all’attività che i pastori portano avanti negli alpeggi nel rispetto della natura. «Quella del pastore è una figura che rischia di scomparire: negli ultimi 30 anni in Italia ha avuto un crollo del 90%», avverte il presidente di Slow Food Biodiversità, Piero Sardo. «L’abbandono del pascolo ha ripercussioni negative per l’ambiente e l’economia montana con il conseguente degrado territoriale; viene poi a mancare un prodotto dalle spiccate qualità organolettiche, non replicabili dall’industria». Di qui una battaglia di gusto e di salute portata avanti dall’organizzazione: la questione dei fermenti aggiunti in fase di caseificazione. «Oggi il latte, sottoposto a rigide norme igienico-sanitarie, è povero di flora batterica autoctona», riprende Sardo, «così si usano fermenti artificiali prodotti in laboratorio, standardizzati. Una pratica che omologa il gusto e appiattisce la qualità. Cheese vuole preservare invece la microflora autoctona e di conseguenza le caratteristiche originali di ogni formaggio». Che, sempre secondo Slow Food (e Coldiretti) passa dalla valorizzazione del latte crudo, da cui si ricavano formaggi tipici dalle proprietà nutrizionali uniche, e che spesso garantisce, grazie ai distributori automatici, la sopravvivenza di aziende tradizionali e a km zero.
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