Welfare

Sorpresa, l’affido diventa interetnico

di Redazione

Bambini e ragazzi di seconda generazione affidati a famiglie straniere, anche di provenienza diversa. Un’esperienza innovativa che mette al centro il ruolo dell’immigratodi Ouejdane Mejri
Sono le venti passate e cerco disperatamente un parcheggio in viale Monza a Milano. Mi ricordo la prima volta in cui mi sono avventurata da sola nelle vie traverse di questa grande arteria, a quando sono entrata per la prima volta nell’edificio della cooperativa Comin e pensavo a tutti i perché che mi avevano spinto ad accettare di far parte del progetto «La casa di Amina». La casa della persona fidata. Storie di affido, di bambini immigrati e di famiglie accoglienti. Accoglienza di chi tribola tra le mura della propria casa, di chi è afflitto dall’immigrazione.
Non solo gli italiani “soffrono” l’immigrazione, anche piccoli esseri che arrivano nel nostro Paese sono vittime di mille strazi dovuti dallo sradicamento dal Paese originale. Il ricongiungimento tardivo con genitori poco conosciuti che non riescono a legare con i figli o aiutarli ad integrarsi in questa nuova realtà, lasciarsi dietro i primi amici oppure fuggire dalla miseria sono tra i motivi per i quali le difficoltà di chi arriva piccolo in Italia possono diventare pesi troppo pesanti da reggere sulle proprie spalle. Troppo per una personalità in costruzione, di una piccola persona che non sa ancora cosa significa integrarsi. Oggi in Italia anche le famiglie immigrate possono essere «portatrici di specifiche esperienze educative» e grazie a questo progetto di affido familiare anche tra famiglie straniere ci sentiamo tutti un po’ più parte integrante di questa società.
La sala dell’incontro è fatta su immagine e somiglianza dell’intera struttura e sembra che ci sia ancora il sole nonostante l’ora tardiva. Sono le macchie di colori caldi che coprono i muri che creano un ambiente accogliente. Sono l’ultima ad arrivare e sulle sedie messe in tondo sono seduti i membri delle famiglie che partecipano al progetto, oggi tutte al completo. Abbiamo imparato a conoscerci prima nella grande cucina, chi preparava il tè e chi lo serviva, un panettone a Natale e qualche dolce arabo per l’Aid e poi abbiamo passato ore e ore a raccontarci le nostre esperienze. Ci hanno spiegato cos’era l’affido e abbiamo spiegato perché eravamo lì. Peruviani, tunisini, marocchini e afghani. Tutti con la medesima motivazione. Aiutare. Tutte le famiglie avevano figli nati in Italia, io ero l’unica single. Tutti volevano avere un bambino da accudire, della propria cultura oppure di un’altra provenienza. Magari meglio se della propria religione così da far ritrovare al bambino abitudini e tradizioni conosciute, offrendogli una casa non troppo diversa della sua. Il leitmotiv dei genitori che erano presenti è che oltre al loro desiderio di prendere in affido un bambino sono stati tutti incoraggiati dai propri figli a fare tale passo. Ragazzi di seconda generazione che non temevano l’arrivo di un nuovo membro nella famiglia. Non dimenticherò mai quello che mi aveva detto la figlia della coppia afgana, una bella ragazza di 18 anni, riservata ma decisa. Sorridendo aveva affermato che «sarebbe bello avere un bambino afgano a casa, lo capiamo e ci capirà; gli spiegherò come fare per adattarsi all’Italia, io che ci sono cresciuta so bene come fare».
Tutti i pregiudizi rimanevano fuori da quella saletta. Dopo gli incontri ci fermavamo a discutere tra famiglie ed eravamo unanimi sul fatto che questa iniziativa promossa dalla cooperativa Comin insieme alla Provincia e al Comune di Milano ci dava l’opportunità di essere attori nella vita sociale italiana, al di fuori del nostro piccolo vissuto. Ad oggi siamo risultati tutti idonei per l’affido e ora siamo solo in attesa di tendere la mano ad un altro piccolo di seconda generazione che per un po’ potrebbe avere bisogno di noi.

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