Nel 1982 avevo trent’anni e mi sono sposato, mentre Michael Jackson produceva Thriller, l’album pop più venduto nella storia. Non c’è un nesso fra le due fortune, ma solo la constatazione, per me, che mi sono perso, perché in altre faccende affaccendato, la parte splendida di questo mito della musica. La generazione più giovane invece è stata investita in pieno dal fascino e dalla bravura di questo bimbo prodigio, rimasto sempre bambino. Io ero colpito dalla sua giocosità, dalla naturalezza dei movimenti di danza, dal ritmo dei suoi brani, ma il personaggio mi ha sempre messo in difficoltà, specie dal momento in cui ha iniziato il tentativo di sbiancare la pelle, di perdere la sua negritudine. Il nostrano, padano, Fausto Leali cantava «Vorrei la pelle nera», perché il soul non può essere bianco se non per imitazione. E Michael tentava l’altra strada, impossibile e alchemica, in un mondo che ancora non aveva scelto Obama. Credo che la parabola di Michael Jackson, le sue disavventure, il suo genio musicale, il suo impegno filantropico (chi di noi non canta, ogni tanto, We are the world?), sia davvero lo specchio di tempi tormentati e ambigui, di barriere di plastica, di sfuggenti discriminazioni, che comunque colpiscono anche i ricchi come lui, magari solo per invidia, o per desiderio di notorietà. Da Graceland a Neverland il passaggio non è solo semantico, sono due mondi e due miti che si toccano nella loro diversità, quello di Elvis e quello di Michael.
Ora che è morto, circondato dal mistero se non dall’intrigo, il piccolo Peter Pan del mondo moderno troverà nuovi e vecchi fans. Ma la sua immagine in sedia a rotelle, con una mascherina anticontaminazione sul volto, non la si può dimenticare facilmente. Ora, con calma, riascolterò la sua musica, guarderò i suoi videoclip, cercherò di capire meglio. Michael Jackson, forse, è un enzima del nostro tempo.
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