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Torino, il cantiere del futuro. Dalla fabbrica all’Arsenale

E' dall’altra parte della città rispetto a Mirafiori. 45mila metri quadrati a porta palazzo, il quartiere degli immigrati.

di Stefano Arduini

“Chissà da quale Torino è uscito Ernesto Olivero?”, si chiedeva Adriano Sofri qualche anno fa parlando del fondatore dell?Arsenale della pace, che era andato a trovarlo in carcere. Domanda lecita, cui oggi si può dare una risposta: la città da cui è uscito Olivero è la Torino del futuro.
Niente a che vedere con la città-fabbrica, novecentesca e fordista legata a filo doppio con la Fiat (“non saremo mai più la Manchester italiana”, ricordava il sindaco Chiamparino). La Torino del terzo millennio è multietnica, è il melting pot. La creatura di Olivero, il Sermig (Servizio Missionario Giovani), sorge, non a caso, dalla parte opposta rispetto a Mirafiori, proprio nel cuore di Porta Palazzo, lo storico quartiere dell?immigrazione araba e maghrebina, dove anche oggi, passandoci in pieno giorno, è quasi impossibile scorgere un altro volto di carnagione bianca, dove locali e negozi hanno le insegne scritte in due alfabeti, latino e arabo, dove le strade sanno di kebab e spezie orientali.

Il posto più difficile
“Torino è la città più difficile al mondo”, ripete con ossessione Olivero. Più difficile di Milano o di Roma, o di Palermo? “Sì, perché da Torino certe cose non te le aspetti, di questa città bisogna comprendere l?anima, e allora possono nascere esperienze bellissime o fallimenti colossali”. Qui ha scelto di vivere, o meglio da qui ha scelto di vivere. Perché ogni anno fa 150 voli in giro per il mondo, oltre 60mila incontri e circa 70mila chilometri in automobile (“guido sempre io, e solitamente di notte”). Il motivo? “Sconfiggere la fame nel mondo, ottenere la pace globale”, risponde Olivero come se fosse la cosa più ovvia di questa terra, “oggi come 40 anni fa, quando io e 15 giovani amici abbiamo compiuto questa scelta. E guarda che non è una follia. Se tutti i gruppi facessero quello che facciamo noi, la nostra sfida sarebbe vinta”. Nel 1964 Olivero, nato a Salerno da padre avellinese e madre piemontese, “ma io sono al 100% torinese”, era un bancario. “Appena raggiunta l?età minima per la pensione ho smesso e mi sono dedicato 30 ore al giorno al Sermig”, ricorda anche adesso che ?rischia? di essere il candidato italiano al premio Nobel per la Pace. La proposta viene da Donato Mosella, parlamentare della Margherita, che sta promuovendo una raccolta di firme fra i suoi colleghi per portare avanti l?iniziativa.

Le armi della bontà
Dal 1983 la casa del Sermig è l?Arsenale della pace, un?antica fabbrica d?armi con una superficie di 45mila metri quadrati, gestito da 50 giovani (“gente che ha deciso di mollare tutto per il Sermig”), dove lavorano oltre mille volontari e che dà accoglienza a 800mila casi (si dice proprio così: “casi”) all?anno. Si tratta di persone, italiani e stranieri, uomini, donne, giovani e bambini alla ricerca di un luogo per dormire, mangiare o semplicemente pregare.
L?Arsenale oggi comprende due centri di accoglienza notturna, uno maschile e uno femminile, un poliambulatorio, una cooperativa sociale che dà lavoro retribuito a persone disagiate, un laboratorio del suono, l?Università del dubbio e una scuola per artigiani restauratori. Oltre, naturalmente a una cappella, “perché il Sermig è prima di tutto un luogo di preghiera e riflessione”. E per non dimenticare nella cappella sono esposti alcuni oggetti: un frammento di vetro insanguinato (“era il finestrino di un?auto di civili iracheni saltata in aria sotto le bombe americane durante la prima guerra nel golfo”), la lama di una machete (“questo è ruandese”) e svariati proiettili raccolti in giro per il mondo: “reperti che ci servono per ricordare e rispettare la nostra missione”.

Entrare senza bussare
Rispetto che anche gli ospiti devono a questo monastero del terzo millennio aperto 24 ore su 24, “perché noi diamo un letto a tutti, ma le regole della casa vanno rispettate”. In Olivero infatti la bontà (sulla porta del suo ufficio c?è scritto: “entrare senza bussare”) e rigore vanno a braccetto. “Io sono una persona severa, solo così posso essere buono”.

Fra basiliche e proiettili
Solo così è riuscito a risolvere la questione della basilica della Natività dove pochi mesi fa israeliani e palestinese erano quasi pronti ad ammazzarsi all?interno di una chiesa, e forse anche per questo è stato recentemente vittima di un avvertimento mafioso. Un sedicente gruppo italiano anti islamico gli ha fatto pervenire una busta contenente un proiettile.
“Non ho idea di chi possa essere stato”, commenta Olivero, “certo non mi fa piacere, ma nemmeno ha cambiato la mia vita”. Una vita “bellissima”, che condivide con la moglie e i tre figli, che anche se hanno una loro autonomia, spesso vengono qui a dare una mano. Dove trova le risorse per mandare avanti questo miracolo? “Dalla gente comune. I torinesi sono riservati, ma Torino è una città ricca e i suoi abitanti sono generosi. E se le migliaia di nostri sostenitori ci dovessero abbandonare, il Sermig chiuderebbe nel giro di tre giorni, ma questo non accadrà mai”.

Non è giusto!
Un?ultima domanda prima di lasciarci: Olivero, ma per essere buoni bisogna per forza avere fede? “Guarda che il paradiso e l?inferno esistono davvero, ma la strada la scegliamo noi, coi nostri atti quotidiani. La fede è solo uno stimolo, perché se fosse un privilegio, io starei dalla parte di chi non ne ha”. Olivero saluta, deve preparare il suo viaggio in Brasile (“Lula ha chiesto di conoscermi”).
Usciamo dal suo ufficio. Sulla parete di fronte ci sono le foto dei suoi viaggi “Qui sono con alcuni bambini africani: occhi sgranati e pance gonfie. Ogni giorno la fame uccide 40mila persone. Non è giusto. Quasi tutti sono africani. Ma se fossero torinesi o milanesi, come ci comporteremmo?”. Per Olivero non cambierebbe assolutamente nulla.

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