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L’Iran si ribella ma non sa contro chi
A Mashad le ragazze girano con velo e scarpe rosa coi tacchi. La polizia e il governo locali però non sono i veri "nemici". Mentre il decadente Occidente non attira simpatia
di Redazione
Non è semplice vivere in una Repubblica islamica. Ormai si è detto in tutti i modi che l’Iran non è quel Paese attanagliato da chador neri e uomini barbuti, e le proteste dei ragazzi iraniani di questi giorni, immortalate da foto e video che continuano a girare numerosissimi sui social network e nelle televisioni straniere, lo confermano: i protagonisti della protesta “per la libertà” sono ragazzi vestiti all’occidentale, sono ragazze che lasciano intravvedere i capelli che spuntano da sotto foulard colorati, una gioventù simile a qualsiasi gioventù europea. Eppure, quest’apparenza è un inganno. L’Occidente pensa di leggere l’Iran attraverso la lente di questi giovani moderni, pronti a morire per le strade delle principali città iraniane pur di far sentire le proprie voci, oppure attraverso la lente dell’Islam e del fanatismo religioso.
L’Iran è oggi un sublime miscuglio di occidentalizzazione, di spiritualità, di valori fondanti, di crisi dei valori, di complessi di inferiorità culturali, di re-invenzioni religiose, di estrema ricchezza ed estrema povertà, di rigidità e flessibilità. E chi non vi è mai stato, difficilmente può capire il perché non è semplice vivere in una Repubblica islamica.
Siamo a Khriaban Sajad, una strada centrale di Mashad, dove tutte le sere la popolazione giovanile si riversa per fare shopping, prendere il tè e conoscersi. Verso le dieci di sera si fa quasi fatica a camminare talmente sono tante le persone per strada. Mentre a Teheran una parte della gioventù protesta, qui questa altra parte di gioventù consuma. Sono con mia cugina Shahrzad che, come il 40% della popolazione iraniana, ha solo 15 anni, e che ha votato per il riformista Mussavi. Lei indossa un foulard rosa, che si abbina alle scarpe col tacco, anch’esse rosa. Con noi ci sono altri amici e parenti, tutti giovani. Mentre parliamo guardiamo le vetrine, ridiamo per qualche battuta. Ad un certo punto una macchina della polizia accosta al marciapiede, dal finestrino abbassato spunta una chadorì, una donna velata col chador. Appella Shahrzad dicendole «khanoum» – signora – e indicando la sua testa le dice «si metta meglio il suo rusari». La macchina riparte, Shahrzad automaticamente si aggiusta i capelli sotto il foulard, e noi continuiamo la nostra conversazione.
Le interferenze di questo tipo sono la consuetudine. Ma il fatto che una ragazzina indossi un paio di scarpe col tacco rosa non fa di lei un simbolo della modernità d’Iran. Crescere sotto la Repubblica islamica significa infatti aver anche interiorizzato alcune norme comportamentali, aver fatto propri alcuni tabù e valori – specie riguardo alla sessualità – che si fondano sull’Islam della tradizione sciita, e significa aver imparato a definire ogni volta, per ogni gesto, per ogni contesto, ciò che è “pubblico” e lecito e ciò che è “privato” e proibito, come una sorta di esercizio di equilibrio della propria libertà personale nella sfera pubblica.
La rivolta dei giovani, soprattutto delle università, soprattutto degli ambienti urbani, soprattutto a Teheran, è dunque sì una rivolta anche contro queste interferenze, una lotta per la conquista dello spazio pubblico, una lotta per la riforma del governo. Ma chi sia il vero nemico, non è poi così ben chiaro. Non sono solo la polizia o le guardie del governo. Ma la società iraniana stessa e tutt’intera, con le sue contraddizioni, la sua morale, la costruzione della propria integrità culturale rispetto ad un Occidente percepito come corrotto e come decadente.
Chi fa la rivoluzione non ha dunque ben chiaro cosa vuole, ma cosa non vuole: non vuole che i confini del lecito coincidano con quelli della propria casa, escludendo tutto il mondo di fuori; non vuole non poter scegliere di viaggiare e non vuole che la differenza di genere costituisca una discriminazione legale.
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