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i figli degli invisibili

Cosa accade quando una straniera irregolare resta incinta

di Redazione

Il ddl sicurezza sta per diventare legge. E tra i punti che introduce, uno riguarda il destino di chi nasce da mamma senza permesso di soggiorno. Destino già oggi drammatico, come queste tre storie documentano
Senza lo straordinario coraggio di sua madre, i grandi occhi scuri di Lorenzo non mi fisserebbero incuriositi. Lei è una ragazzona di 30 anni, migrante e disoccupata. È arrivata in Italia via mare, incinta di quattro mesi. «Ma devo ancora raccontare quella storia?», mi chiede nel suo francese un po’ masticato. «Sono nata in Nigeria, poi con la famiglia mi sono trasferita in Costa d’Avorio, ad Abidjan. Lì ho conosciuto mio marito. Ci siamo sposati e siamo andati a vivere in Nigeria». «Un giorno un amico di mio marito viene da me», prosegue, «e mi porta in una strada per mostrarmi il cadavere del mio uomo. Aveva 35 anni». È il giugno dello scorso anno. «Mi chiama mia suocera», va avanti, «mi dà dei soldi, dice che devo andarmene. Parto». Il tragitto è sempre quello. La traversata del deserto, la Libia, il barcone. «Due giorni in mare e siamo arrivati a Lampedusa. Eravamo in 25». Lei questo bambino lo voleva: «Ho avuto un altro figlio. È morto», spiega senza dire perché. Ce n’è bisogno? In Italia le cose sono andate diversamente. Lorenzo ora ha cinque mesi. «Non ho paura. Sono solo preoccupata di non avere denaro per mantenere il mio bambino. Viviamo qui a Roma, con le suore. Ma non c’è lavoro». Ha avuto un permesso di soggiorno per maternità che scadrà fra tre mesi. Ha fatto richiesta di asilo politico. Sa che è difficile, ma è tenace. Ha già fatto il volantinaggio, la donna delle pulizie. «Daniela (la mediatrice culturale, ndr) mi manda a scuola per imparare l’italiano, così sarà più facile trovare lavoro», spiega.

Daniel, sempre in silenzio
Nella stanza in cui ci incontriamo, Daniel – cinque vivacissimi anni – non sta mai fermo, ma nessun suono esce dalla sua bocca. Non una parola. Il perché lo spiega sua madre: da piccolo ha avuto la meningite. Il silenzio è un’eredità di quella stagione nera. Che è poi il motivo per cui lei e il marito, boliviani, hanno scelto di affidare gli altri quattro figli e venire in Italia. È arrivata prima lei, nel 2006. «Ho trovato lavoro in una famiglia. Mi occupavo dei bambini. Certo, in nero. Brutta esperienza: non mi facevano mangiare, non potevo fare la doccia. Poi è arrivata l’estate». Ovvero il mese in Sardegna per l’italiana e i suoi; la disoccupazione per Maria. La sistemano presso una anziana: 700 euro – sempre in nero – senza poter ricevere in casa marito e figlio, nel frattempo giunti a Roma. «Ci incontravamo a 100 metri dal palazzo. Era dura. Ma senza quel lavoro, non saremmo riusciti a campare». Perché è papà Riccardo (due lauree, un passato nello staff del viceministro boliviano dell’agricoltura) che si occupa di Daniel. L’equilibrio si rompe quando il bambino ha una ricaduta e il padre si ammala di tubercolosi. Lei lascia la signora per prendersi cura del marito ricoverato e del figlio. «Quando lui si è ammalato è stato il momento più duro. Un isolamento anche fisico». Riccardo guarisce, arriva il 2008. Vivono separati, lei in un centro d’accoglienza, lui in un altro. Ma riescono a riprendersi. Oggi – con un permesso di soggiorno per curare Daniel – Riccardo lavora come badante, Maria abita con il figlio presso una famiglia dove fa la colf. Nemmeno con il permesso sono riusciti ad avere un contratto («è troppo costoso?»).
«Con questa nuova legge abbiamo timore anche a farci curare», spiega Maria, e racconta di una sorella collaboratrice domestica; arrivata in Italia con una figlia di 7 anni, due mesi fa ha dato alla luce un’altra bimba. «La sua idea era partorire in casa. Aveva paura che le togliessero la figlia. Quando si sono rotte le acque, abbiamo chiamato noi l’ambulanza. “Sarà quel che Dio vorrà”, ci siamo detti». È andata bene.

Un imprevisto chiamato Cristian
Due settimane di viaggio, su e giù da treni, furgoni, bus, quasi senza toccare cibo, dormendo appena, in attesa del prossimo “traghettatore” verso il prossimo confine: gli occhi sbarrati e la paura alle calcagna. Helena, 25 anni, moldava, ha conosciuto le vie dell’immigrazione clandestina nel 2004, sulle rotte controllate da clan malavitosi. «Tremila euro l’anticipo per il viaggio, da restituire con interessi del 20%. Una follia». Ma la chimera di un lavoro è un movente troppo forte e, a due mesi dal matrimonio, l’allora 20enne fa armi e bagagli: destinazione Roma, casa di una zia. Però l’impiego si rivela un’illusione: «Decido di tentare a Milano. Trovo un posto come badante e, finalmente, mi ricongiungo a mio marito: altri 3mila euro». Per lui il lavoro non arriva: i soldi mancano e i debiti abbondano. «Ma tornare in Moldavia dai creditori è un suicidio. Tanto vale sperare per il meglio».
nvece, arriva l’imprevisto, sotto forma di cicogna. «Taccio la gravidanza per non perdere il lavoro. I clandestini moldavi mi diffidano dall’andare in ospedale, perciò mi impongo: niente visite né ecografie». Neppure quando perdite e dolori le richiederebbero. «La figlia dell’anziana che accudisco mi convince a cercare il Centro di solidarietà San Martino. Un’operatrice mi aiuta a ottenere il permesso di soggiorno per cure mediche». Insieme all’ecografia arriva anche l’ennesima doccia fredda: «I bimbi erano due, uno dei quali espulso con aborto spontaneo. Il secondo è da tenere sotto controllo, la gravidanza è a rischio e richiede riposo. Proprio ciò che non posso permettermi». Helena salta le visite e continua a lavorare. Ma qualcosa non va. A un mese dal parto, al nascituro è diagnosticata una grave idrocefalia. «Mi dicono che partorirò un figlio morto, nel migliore dei casi disabile al 100%. Altra doccia di panico. Quando attaccano le doglie vado in ospedale con un asciugamano fra le mani, rassegnata a tornare a casa col grembo e il cuore vuoti». Ma la ginecologa non si dà per vinta e, quando il bimbo nasce vivo, dispone il trasferimento all’Istituto Carlo Besta. «A sei giorni mio figlio subisce il primo di una serie di interventi. Tutti riusciti. Oggi Cristian è un bimbo bello e sano». Alla fine Helena, dopo un permesso per cure mediche, rientra nei flussi del 2007 e ottiene il nulla osta per lavoro.

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