Welfare

La libertà nasce dalla tenerezza

Ex terrorista nera, otto ergastoli sulle spalle, un presente di volontaria contro la pena di morte: «Pensavo saremmo morti. Che non avremmo mai vissuto un giorno insieme fuori dal carcere.

di Cristina Giudici

Il giorno in cui Valerio Fioravanti ha lasciato il carcere per la prima volta, Francesca Mambro ha giocato al lotto: 1, 9, 8, 5 come l?anno in cui si sono sposati, e 7, 10, 19, 9,8 come il giorno in cui dopo 17 anni, per la prima volta, insieme hanno lasciato il viale senza alberi di Rebibbia. Così, per gioco, ma anche per scaramanzia, Francesca Mambro ha voluto gettare un sassolino nello stagno del destino, augurandosi che arrivi un tempo non più inquinato dagli odori del carcere, in cui parlarsi senza sussurrare per paura di essere ascoltati. Francesca non è più la ?pasionaria nera? dei Nar, nuclei armati rivoluzionari, la ragazza ribelle che, quando il suo amico Stefano Recchioni morì quasi nelle sue braccia colpito da un capitano dei carabinieri, nel gennaio 1978, e i dirigenti del Msi tacevano, decise che la guerra era cominciata. Finiti anche i tempi in cui la latitanza coincideva con la prima primavera del suo amore con Valerio Fioravanti. Oggi Francesca Mambro ha otto ergastoli sulle spalle ma continua a lottare per giungere all?appuntamento con la libertà, per sé e per suo marito, e per l?assoluzione dalla ?infame? condanna per la strage di Bologna dell?agosto 1980. Una donna dagli occhi trasparenti, non piegata da tanti anni di carcere. Una donna sostenuta dalla forza dell?amore. Dall?aprile del ?98 esce di giorno per lavorare nell?associazione contro la pena di morte «Nessuno tocchi Caino». La sera torna in carcere. Ora, dopo il primo permesso di 4 giorni ottenuto dal marito, può sognare un orizzonte diverso, fatto delle piccole cose di tutti i giorni. Francesca, di che colore immagina il suo futuro? C?è stato un momento, dopo la sentenza definitiva sulla strage di Bologna, nel ?95, in cui ho smesso di aver voglia di vivere. I giudici hanno azzerato tutta la nostra storia e ci hanno detto: ?Signori, voi non appartenete al genere umano, siete degli stragisti?. Assurdo. Sono rimasta in piedi solo grazie al nostro amore, pulito, mai contaminato dal tradimento dei nostri amici e dalla decisione di quei giudici che ci hanno condannato sapendoci innocenti. Il fatto è che a quel tempo non c?era nessun altro da incastrare, eravamo gli unici latitanti della destra che non avevano collusioni con politici e forze dell?ordine. Anzi, se siamo arrivati a decidere chi uccidere e chi lasciare in vita, è stato proprio per dimostrare che non avevamo coperture e che la nostra ribellione era autentica. Quando ci fu la strage a Bologna, io divenni come Cassandra. Sentivo che la trappola era pronta a scattare. Poi la storia è andata come è andata. E oggi sono qui grazie a Valerio, al nostro amore intatto come i primi giorni, durante la latitanza. Quando abbiamo percorso il viale di Rebibbia, una settimana fa, eravamo ancora noi, quelli di sempre, che si amavano come e più di ieri. Così, quando è uscito Valerio, ho pensato che a volte la realtà supera l?immaginazione. Non avevo mai osato sperare tanto. Da quel momento la parola futuro ha ripreso significato. Siete entrati in carcere ventenni, siete cresciuti in cella. Come ha potuto sopravvivere il vostro amore? Ho un po? di pudore a parlare del nostro amore, per rispetto dei familiari delle vittime della nostra violenza. In ogni caso, la mia storia d?amore con Valerio è cresciuta con gli anni, si è rafforzata. Ancora oggi non si può dire dove inizi uno e dove finisca l?altro. Siamo una cosa sola. Siamo sopravvissuti perché ogni giorno ci scrivevamo una lettera, e quando non era possibile, per la censura, ci mandavamo lettere incrociate attraverso i genitori. Siamo sopravvissuti grazie alle udienze dei processi, dove non ci saremmo presentati se non avessimo ottenuto di stare insieme nelle gabbia. Momenti di tensione e rabbia incredibile, ma anche di tenerezza. Intenerivamo guardie, avvocati e giudici. Ognuno era coinvolto dall?autenticità del nostro legame, ma non è servito a far trionfare la verità. Ci hanno condannati lo stesso. Arrivavamo in tribunale incatenati e, quando ci abbracciavamo, rimanevamo incastrati l?uno all?altro, come orsi da circo. Stavamo ore e ore abbracciati, lui era un prolungamento delle mie braccia, del mio corpo. Valerio mi calmava, quando non trattenevo l?ira per quello che subivamo. Poi ci separavano e io tornavo in cella, contando i giorni alla prossima udienza, mi assalivano malesseri psicosomatici, herpes, mal di stomaco. Anche ora che lui è tornato in carcere, dopo il permesso, mi è venuta la febbre. Da latitante credeva che sareste sopravvissuti? Pensavo che saremmo morti. Oggi non è difficile spiegare cosa sono stati quegli anni, cosa voleva dire vedere i tuoi amici accoltellati o morti. La nostra generazione è stata risucchiata dalla violenza. Era un odio che non era possibile placare, una guerra cui era difficile sottrarsi. Ma anche se quella storia si è chiusa, mi sono sempre assunta le mie responsabilità, perciò non mi posso dissociare né pentire perché non mi posso dissociare da quella che è stata la mia vita, mio marito, i miei amici. Spero solo che il male che abbiamo fatto e ricevuto sia servito a capire che morire per difendere una bandiera o un?ideologia è una follia. La morale nella tragedia di quegli anni è questa: siamo stati gli ultimi Mohicani, non ci dovrà più essere violenza, mai più. In carcere cosa è successo? È iniziata un?altra guerra, quella per non affondare nel dolore, nella separazione da Valerio, nella disperazione di essere finita in un incubo kafkiano, quello del processo su Bologna in cui solo io e Valerio siamo stati condannati. Le proteste per avere i suoi telegrammi qualche ora prima, le battaglie per fargli avere una lettera la mattina presto. I colloqui che riempivano l?aria di felicità e finivano in un lampo. L?attesa. Ma anni in cui, io unica nera fra le rosse, ho trovato il senso dell?amicizia. Come con Laura Braghetti, con cui ho scritto un libro: ?Nel cerchio della prigione?. Anni in cui ho imparato che nonostante tutto io sono più fortunata di altri che stanno in carcere e non hanno prospettive. Così l?impegno politico è stato trasferito in ambito sociale, abbiamo cominciato a lavorare al problema tossicodipendenza, l?applicazione della legge Gozzini, il reinserimento dei detenuti. Una lotta anche per il diritto all?affettività, all?amore? Non volevamo essere degli animali nello zoo, costretti in certi orari prestabiliti a fare sesso, riprodursi. Come quando, al processo di Bologna, portavano le scolaresche per vedere i mostri della strage dietro le sbarre. No, meglio un desiderio a lungo inappagato, che costringere il nostro amore a una sorta di fenomeno da baraccone. Il diritto all?affettività vuol dire allargare l?applicazione della legge Gozzini, spingere fuori dal carcere chi può essere recuperato. E quando è uscita dal carcere la prima volta? Nel ?97, stavamo lavorando a uno spettacolo teatrale e ho posticipato l?uscita di una settimana, per non intralciare la messa in scena. Dovevo recitare la parte di Clitemnestra. Ho fatto fatica a uscire perché sapevo che lasciavo dentro Valerio, le mie compagne e chi, a differenza di me, non sapeva come combattere per la libertà. Mi sentivo in colpa. Ogni giorno tornavo a Rebibbia per avere un colloquio con mio marito. Lui era dentro e aveva ancora problemi, io stavo fuori anche grazie all?impegno di volontari, dell?équipe penitenziaria, della direttrice del carcere. Mi sentivo privilegiata. Fuori ho trovato la mia famiglia, i telefonini, la gente ingrugnita, che andava troppo di fretta. Ora non resta che sperare nell?indulto. La lotta armata è una storia finita, ma non credo che ci debba essere una legittimazione dell?omicidio politico, o che il contesto politico di quegli anni debba essere un?attenuante. Semmai era un?aggravante rispetto ai detenuti comuni che hanno compiuto reati senza molta consapevolezza. Un indulto però potrebbe servire a fare giustizia: in questi anni è uscito chi dovrebbe stare dentro ed è dentro chi dovrebbe star fuori, anche se ha dato chiari segni di affidabilità. Per lo stesso reato c?è chi si è fatto dieci anni e si è dissociato e chi sta ancora dentro. Non è giusto. L?indulto potrebbe servire a riequilibrare le pene, a rendere la giustizia uguale per tutti Ma questo discorso non vale solo per l?indulto, vale per tutti i detenuti: qualcuno mi deve ancora spiegare perché nelle nostre carceri può succedere come a Genova dove una ragazza è morta di Aids senza avere la sospensione della pena. Oggi lavora come volontaria in un?associazione che si occupa di condannati a morte. Perché? Il legame con ?Nessuno tocchi Caino? è nato quando i radicali hanno fondato il comitato ?Se fossero innocenti? durante il processo di Bologna. Il volontariato è uno sbocco naturale per noi detenuti politici. I volontari in carcere hanno fatto conoscere cosa succede ?dentro?, introducendo la tematica penitenziaria nell?agenda parlamentare. Ma sono qui anche perché, per noi che abbiamo provocato la morte, forse, è anche un modo di riparare i torti fatti. Facendo qualcosa per aiutare chi ha un appuntamento con la morte. E domani? Domani ci sarà Valerio, una casa, la vita insieme. Ho combattuto contro chi voleva separarci, facendo di Valerio un mostro stragista, e forse, dico forse, assolvendo me. Ma noi siamo un?entità, e anche se ho imparato a stare senza di lui, non riesco a immaginarla, un?esistenza senza Valerio. Purtroppo, però, rimarremo per sempre prigionieri del passato, dei nostri amici morti, e di quelli che ci hanno tradito, del dolore che abbiamo provocato e della sofferenza che abbiamo patito».


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