«Si dovrebbe pensare di più a far bene che a star bene e così si finirebbe anche a star meglio». Alessandro Manzoni
Vi raccomando la lettura a pagina 34 di questo numero della nascita del primo distretto della cooperazione sociale. Il fatto che in un momento di crisi prolungata e profonda come quello che stiamo vivendo, un consorzio abbia avuto la forza e la determinazione per fare un passo come questo è molto emblematico. Vuol dire che in Italia esiste un nocciolo buono, resistente e sempre proattivo capace di pensare e agire in positivo anche quando il contesto è depresso e il pessimismo paralizza gli osservatori. Il consorzio InConcerto, questo è il suo nome, chiuderà il 2009 con un +7% di fatturato. Ma non è su questo che ci interessa puntare l’attenzione. Quello che colpisce è la capacità di innovazione, è l’intelligenza messa al lavoro per difendere e creare nuovo lavoro. Proprio pochi giorni fa, nel suo consueto appuntamento con la rubrica «Microcosmi» sul Sole 24 Ore, Aldo Bonomi esprimeva un’idea forte e giustissima. Riprendendo un concetto lanciato dal Nobel George Ackerlof al Festival dell’Economia di Trento, che cioè per uscire dalla crisi dobbiamo tornare alla voglia di intrapresa delle persone, Bonomi sottolineava come proprio questo fosse il segreto del capitalismo molecolare italiano. È l’impresa come progetto di vita, di cui parlava il teorico dei distretti Giacomo Beccattini. «L’impresa non è una molecola del capitale che segue l’andamento borsistico», scrive Bonomi, «ma un progetto di vita con radici profonde nell’ambiente locale, nel territorio». Non è una visione idealizzata del Sistema Italia. È il resoconto di un osservatore tenace, che in questi anni dominati da stereotipi culturali di ogni colore si è accanito a raccontare ciò che vedeva e registrava negli innumerevoli incontri effettuati girando l’Italia in lungo e in largo. Un resoconto non privo di note negative e a volte drammatiche, che però non smentiscono l’attendibilità dell’assunto: questo è un Paese che può far conto su un capitale che non si deprezza davanti all’assalto della crisi. Ma di cosa è costituito questo capitale? Certamente di fantasia, di flessibilità, di fiducia, di buona cultura aziendale. Ma soprattutto è un capitale che non sappiamo definire se non come un capitale “antropologico”. Al fondo c’è un’idea (e una pratica quotidiana) del lavoro come completamento del proprio progetto di vita. È il lavoro non solo come esito dello spirito di intrapresa di qualcuno più intuitivo di altri, ma come terreno stesso dello spirito di intrapresa che ciascuno custodisce dentro di sé. Lavoro come terreno di relazioni, di scambio di competenze, di soddisfazione personale, ma anche di investimento sul futuro nostro e di chi verrà dopo di noi. Un sociologo come Maurizio Mancuso definisce questo come l’homo laborans, quello che, fedele all’etimo della parola, si impegna a lavorare perché il suo sguardo è interessato a ciò che lascia a chi verrà. Non vorremmo sbagliarci, ma questo è il più efficace ammortizzatore sociale su cui investire e mettere risorse (e anche su questo l’esperienza di InConcerto insegna: leggere per credere).
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