Welfare

la scrittrice che fa ridere (e piangere) di guerra e di follia

Igiaba Scego e il suo laboratorio con i rifugiati

di Elisa Cozzarini

Nata a Roma da genitori somali in fuga da Siad Barre, la Scego ha recuperato la tradizione orale del suo Paese
e la fa rivivere tra i rifugiati. Qui racconta come «Ma che, nun ce vedete? Non lo vedete ‘sto cartellino giallo fosforescente con tanto di nome, cognome e numero di matricola? Secondo voi perché ce l’ho? No, non c’entra nulla il permesso di soggiorno. Risposta errata! No, vi sembrerà strano ma io sono cittadina della Repubblica, questa Repubblica, e credo nella Costituzione del 48, nei suoi valori». È Zuhra che parla, una delle protagoniste del romanzo Oltre Babilonia di Igiaba Scego, un vero fenomeno editoriale che spiega quanta curiosità e voglia di capire ci sia intorno al tema dell’integrazione. Zuhra infatti fa la commessa in un centro commerciale di Roma, ma siccome ha la pelle nera tutti la scambiano per la donna delle pulizie.
Igiaba Scego è nata a Roma 35 anni fa da genitori somali in fuga dalla dittatura di Siad Barre. Il primo ad accorgersi del suo talento è stato Goffredo Fofi, che l’ha consacrata con una recensione sul Sole24Ore. Ha passato tutta la sua vita in Italia e rifiuta di essere classificata come scrittrice migrante: «Io parlo del presente, della Roma città-mondo che vivo ogni giorno nel mio quartiere, Tor Pignattara, della babele linguistica che incontro anche solo salendo su un autobus».
Scherza, Igiaba: non lo diceva anche Flaubert, «Madame Bovary, c’est moi»? E infatti c’è un pezzo di lei in tutti i suoi personaggi, senza essere nessuno di loro. Igiaba non è Zuhra, anche se sa bene quanto è difficile crescere in Italia con la pelle nera: «Gli uomini ti approcciano in modo allusivo, come se fossi una prostituta. I conoscenti vedono in te sempre qualcosa di esotico?».
Per Igiaba la dimensione del racconto orale è una dimensione fondamentale, che ha assorbito prima di tutto dalla madre, che è stata nomade fino agli 8, 9 anni. L’età non è precisa perché lei stessa non sa la sua data di nascita. «È cresciuta in un altro mondo e io sono cresciuta ascoltando le sue storie, che non finivano mai».
Igiaba non dimentica la Somalia e i somali in Italia. Vuole parlare del loro “buffis”, quella voglia di andare via che assale i giovani, un desiderio forte, invincibile e inspiegabile come l’amore, ciò che spinge i ragazzi a fuggire dalla loro terra. «È come una malattia, che può portare alla morte, al suicidio, alla follia», spiega la scrittrice. «Sto facendo un laboratorio per Lettera27 con richiedenti asilo dalla Somalia. Parliamo tanto, di violenze, della guerra, delle cose terribili che hanno affrontato nel viaggio per l’Italia. L’oralità è ancora molto importante per loro. Ci mettiamo in cerchio e parliamo, parliamo. Non credevo che avrebbero parlato tanto di cose così terribili. Mi ha colpito soprattutto che lo facciano ridendo. C’è in somalo una parola intraducibile, che significa più o meno “ridere e tremare dal dolore”. Da loro vorrei imparare proprio a raccontare le tragedie in modo ironico. Loro ridono per non morire dentro, credo. Gli racconto di una Somalia che non conoscono, monumenti ora distrutti, che ho visto nei miei viaggi da bambina. Loro sono cresciuti durante la guerra e la guerra cambia tutto, anche la geografia».
Per Igiaba il laboratorio è uno studio sulle persone, un tassello del mosaico multietnico italiano. «Io cerco sempre la realtà, per poter creare personaggi con cui entro in empatia. Solo così posso scrivere».


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