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Inchiesta tra 2500 operatori. motivazioni sempre alte

Voci e volti del welfare invisibile: realizzata dal Cnca, per l'83% degli intervistati appartegono al terzo settore

di Redazione

Aumentare la spesa sociale sino alla media europea, integrazione tra servizi sociali, sanitari ed educativi, definizione dei livelli essenziali di assistenza sociale. Sono alcune delle proposte degli operatori sociali, che chiedono di essere maggiormente ascoltati se si vuole che il welfare risponda realmente ai bisogni fondamentali delle persone. «Ne tengano conto sia il Governo, invece di continuare la sua azione di riduzione dello stato sociale, sia le Regioni e gli Enti locali». È questo il messaggio lanciato oggi in occasione della presentazione dei risultati dell’indagine sul lavoro sociale “Voci e volti del welfare invisibile”, che ha coinvolto oltre 2500 operatori sociali, del terzo settore (85% del campione) e del pubblico, in tutta Italia.
L’inchiesta, presentata oggi a Roma, ha coinvolto un campione di oltre 2500 operatori sociali, distribuiti sull’intero territorio nazionale, che lavorano all’interno dei servizi e degli interventi del welfare locale. L’inchiesta ha interessato tutte le figure professionali operanti nel sociale: assistenti sociali, educatori professionali, sociologi, psicologi, pedagogisti, assistenti domiciliari, mediatori culturali, operatori impegnati negli interventi di promozione sociale, nell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, nei servizi alla persona a carattere domiciliare, semiresidenziale e residenziale.

Il 65% sono donne, a ribadire la marcata femminilizzazione del lavoro sociale, un dato particolarmente significativo per quanto riguarda le dinamiche salariali e la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Circa l’85% del totale degli intervistati lavora nel Terzo Settore, in prevalenza nella cooperazione sociale (l’8% dei quali con funzioni dirigenziali o di staff), l’11% nella Pubblica Amministrazione locale o in Sanità. I lavoratori stranieri rilevati dall’indagine sono meno del 4% del totale, un’ulteriore conferma della familiarizzazione dell’assistenza nel nostro paese. Massicciamente presenti nelle case delle famiglie italiane assistendo anziani, bambini, disabili, ecc. (oltre 600.000 assistenti familiari con lavoro regolare, altrettante quelle “invisibili”) gli operatori sociali stranieri sembrano “scomparire” dalla rete dei servizi territoriali che occupa, secondo recentissime ricerche svolte dall’Isfol e da altri Istituti di ricerca, circa 700mila lavoratori e lavoratrici. 

Il lavoro di inchiesta offre una serie di dati e molti spunti di riflessione rispetto ai temi del welfare e dei servizi alla persona. In primo luogo emergono condizioni di lavoro, sul terreno salariale e dei diritti, molto pesanti per chi opera in questo settore spesso con titoli di studio medio alti. Circa la metà degli intervistati svolge il proprio lavoro a tempo pieno. Di questi, il 66% guadagna meno di 1200 euro al mese (una percentuale che include il 23% degli intervistati, che dichiara di guadagnare tra gli 800 ed i 1000 euro mensili).

Dal punto di vista contrattuale circa il 61% del nostro campione ha un contratto a tempo indeterminato mentre il restante 39% ha forme contrattuali a tempo e precarie di vario tipo. Questo dato, se scendiamo verso il centro sud, diventa particolarmente drammatico; infatti, la maggioranza (53%) degli operatori di questa area geografica non ha un contratto stabile.

La soddisfazione per la propria posizione contrattuale taglia in due il campione di lavoratori e lavoratrici intervistate: il 49% ritiene di essere poco o per niente soddisfatto, analoga la percentuale di quanti si dichiarano molto o abbastanza soddisfatti. Questo dato è particolarmente significativo perchè fortemente correlato ad una diffusa percezione, rilevata nel 71% degli intervistati, relativa al non pieno rispetto dei diritti dei lavoratori nel comparto dei servizi alla persona ed alla comunità (i diritti sono rispettati: 48% soltanto in alcuni posti, 20% no nella maggioranza dei casi, 3% mai).

Una domanda ad hoc, a cui era possibile dare più risposte, è stata posta per rilevare l’attribuzione di responsabilità di tale situazione. Sul totale delle risposte date, la responsabilità del mancato rispetto dei diritti dei lavoratori è attribuita alle Istituzioni e all’Ente locale dal 26% degli intervistati, alle cooperative e agli altri soggetti gestori dei servizi dal 17%, ad entrambi (EELL e coop insieme) dal 41%. Per quanto riguarda i diritti degli utenti, ritenuti poco rispettati dal 44% degli intervistati, le responsabilità sono attribuite per il 32% all’Ente locale, per il 14% alle cooperative, per il 31% ad entrambi, per il 26% al quadro legislativo carente sui temi del welfare e per il 15% alla scarsa sensibilità dell’opinione pubblica sui temi sociali.

Malgrado l’evidente condizione sfavorevole sul terreno salariale e dei diritti, i livelli di motivazione degli operatori e di scelta consapevole del lavoro rimangono molto alti; basti pensare che il 76% delle persone intervistate si reputa soddisfatto dell’organizzazione per cui lavora (dato che paradossalmente scende al 61% se si prendono in considerazione i soli operatori del pubblico, dove le garanzie lavorative sono nettamente migliori del terzo settore).

Questa motivazione è spiegabile anche in ragione del fatto che la maggioranza degli operatori hanno “scelto” questo lavoro e non gli è capitato. Infatti alla domanda: “perchè hai scelto di fare questo lavoro?” il 45 % sostiene che è un lavoro che lo stimola, il 40% che gli permette di stare in contatto con persone diverse e mettersi in discussione, mentre solo il 6% sostiene di averlo scelto perchè non trovava altro. Così come la motivazione, rileva l’indagine, anche la percezione di qualità dei propri servizi è piuttosto alta in una scala da 1 a 5: il 56% (che scende al 44% se si considerano solo gli operatori del pubblico) degli intervistati posiziona il proprio servizio tra un livello 4 e un livello 5, mentre solo l’11% lo posiziona tra l’1 e il 2, il 30% si dispone su un terreno intermedio indicando 3. Lo stesso giudizio non viene però attribuito al lavoro di rete e di integrazione dei servizi. Infatti, il 64% degli operatori giudicano il livello di integrazione dei servizi nell’ambito del lavoro di rete come basso o medio-basso.

Insomma, sembra emergere una fotografia dei servizi di buona qualità con operatori motivati, ma scarsamente coordinati ed integrati tra loro. Inoltre, sul tema del cosiddetto “mercato del lavoro sociale” la gran parte degli operatori intervistati sostiene una critica piuttosto forte ai meccanismi di concorrenza inseriti nel mondo “sociale”, attribuendogli un’influenza negativa tanto sul terreno della collaborazione tra servizi e della qualità che sul piano dei diritti degli operatori.

Complessivamente il 65% degli intervistati sostiene questa tesi mentre solo il 14% ritiene che la concorrenza favorisce la qualità del servizio. D’altra parte emerge molto forte anche da altre domande un’idea di qualità del servizio legata alla capacità di coinvolgere gli utenti, la comunità e il territorio nella costruzione degli obiettivi stessi dei servizi e, in questo senso, creare un clima di competizione tra le strutture del terzo settore che hanno in gestione i servizi stessi non sembra facilitare i processi di partecipazione sociale e condivisione. Dal punto di vista dei cambiamenti ritenuti necessari e urgenti nel sistema di welfare e, in particolare, relativamente ai servizi alla persona, emergono richieste abbastanza nette. Infatti, il 45% degli intervistati chiede di aumentare la spesa sociale sino alla media europea in un momento in cui l’attuale governo ha tagliato le risorse già scarse per le politiche sociali e le regioni fanno fatica a coordinarsi nell’ambito delle proprie competenze; dall’altra parte, un 36% torna sul tema dell’integrazione tra servizi sociali, sanitari ed educativi chiedendone una maggiore attenzione.

Infine, un certo numero di operatori, il 26%, chiede di definire i livelli essenziali di assistenza sociale, adeguando i relativi servizi e prestazioni come scritto nella legge 328 del 2000. Sembra quindi delinearsi la richiesta di un welfare non residuale, che integri il privato sociale nelle politiche pubbliche, non in un’ottica assistenziale e caritatevole, ma con più attenzione alla qualità, alla professionalità e all’efficacia dei servizi.
Un progetto, dunque, di investimento nel settore che lo faccia uscire da una logica emergenziale. L’ ultimo aspetto fondamentale emerso dall’ indagine riguarda la grande richiesta di partecipazione che si esprime a più livelli: sul piano di una co-progettazione con l’ente locale; all’interno delle stesse organizzazioni del terzo settore; in relazione agli utenti stessi per i quali si rivendica un maggior coinvolgimento nei processi decisionali.


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