Welfare

Teatro, corsi, consulenze. La colf sì che ci sa fare

Un caso di autorganizzazione delle lavoratrici domestiche

di Maurizio Regosa

Le storie di alcune collaboratrici domestiche impegnate nei circoli
Acli Colf. Piccole comunità di mutuo aiuto che
offrono sostegno concreto, accompagnamento
ma soprattutto ascolto.
E al ministro Sacconi
hanno detto che…
«Mi sono trovata davanti Sacconi e gli ho fatto vedere il nullaosta di una colf mia connazionale: il suo datore di lavoro era morto e lei era finita nella clandestinità». La nicaraguense Lidia Obando del circolo Acli Colf di Roma – da 20 anni in Italia, 4 figli – quel baratro d’incertezza ha tentato di spiegarlo al ministro, suggerendo che l’universo delle collaboratrici familiari è fatto di mille storie diverse, di tante difficoltà, di incomprensioni e di ostacoli che talvolta le leggi non si preoccupano di spianare. Anzi. «Anche per questo», prosegue Obando, «facciamo un lavoro di accompagnamento, formazione, di socializzazione, con appuntamenti periodici nel corso dei quali ci mettiamo all’ascolto delle donne». È un universo composito, quello delle colf, e troppo spesso sommerso: intreccia il fenomeno migratorio, le questioni del lavoro (dall’applicazione al rispetto del contratto nazionale) e quelle personali (coi figli e i mariti che vivono anche a 10mila chilometri di distanza).
Ed è per questo che i 40 circoli Acli Colf svolgono (in altrettante province) un lavoro capillare per le circa 7mila associate. Di fatto, oltre all’orientamento e all’informazione, questi circoli sono una sorta di cuscinetto informale: attutiscono l’impatto, arrotondano le asperità, contribuiscono a rendere accettabile una vita difficile per definizione. Sarà perché spesso ci sono passate: «Sono stata tre anni clandestina», racconta Roxana Dumitrescu, rumena 41enne, da cinque anni in Italia (ha una laurea in giurisprudenza e un master in polizia) che lavora presso due famiglie ed è impegnata nel circolo Acli Colf di Padova: «Arrivando in Italia non ho trovato un muro di razzismo. Ero ospite e dovevo imparare. Quando arrivi sei come un bambino che non sa camminare: per questo a Padova abbiamo aperto uno sportello che aiuta le donne a stilare il curriculum, le orienta, organizza corsi di italiano, dà suggerimenti su come muoversi anche per i ricongiungimenti».
Consigli preziosi che veicolano un messaggio assai più importante: «Non siete sole». Perché per una donna che arriva per lavorare è essenziale sentirsi in una comunità e potersi appoggiare, non solo per le questioni professionali. «Noi ci occupiamo del contratto, che purtroppo è applicato dalla minoranza dei datori di lavoro, lavoriamo per la mediazione di eventuali conflitti», spiega Laura Malanca di Acli Colf Torino, «ma andiamo anche oltre: per esempio abbiamo organizzato seminari per gli adolescenti: è un’età difficile per tutti, figuriamoci per chi è arrivato in Italia da straniero. Abbiamo fatto anche esperienze di teatro sociale per alleviare le difficoltà soggettive».
Condivisione e conoscenza: è la concreta, quotidiana offerta di queste piccole comunità che vogliono lenire tensioni e ansie pienamente comprensibili. Quella di perdere il lavoro (visto che, conferma Malanca, «la domanda è calata, mentre l’offerta è sempre alta. Ultimamente anche da parte di lavoratrici italiane»). Oppure la preoccupazione per la casa («a Padova», spiega Dumitrescu, «cerchiamo di aiutare le donne facendoci in qualche maniera garanti: non ha idea di quanta diffidenza abbiano le agenzie immobiliari nei confronti delle lavoratrici straniere»). O ancora la frustrazione di non poter tornare nel proprio Paese (magari per vedere i propri figli) perché temono di non riuscire a rientrare. Un timore tutt’altro che peregrino. «Per alcune», conferma Lidia Obando, «la casa presso cui lavorano diventa un carcere: hanno paura di essere fermate, magari aspettando l’autobus. Del resto i permessi di soggiorno arrivano con un tale ritardo…».


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