Venerdì primo maggio, alla vista della bella giornata di sole (finalmente) milioni e milioni di italiani hanno avuto tutti la stessa idea: mettersi in macchina e scappare dalle città. Risultato: una paralisi sulle autostrade che da almeno dieci anni non si registrava. Dopo il lungo e buio inverno della crisi, in tanti hanno avuto il desiderio di respirare e di rivedere un po’ di luce. Nelle stesse ore, dall’altra parte dell’Oceano, l’amministratore delegato dell’azienda che aveva messo in macchina buona parte di quegli italiani, firmava un accordo storico che la poneva tra i big mondiali. La coincidenza ovviamente è del tutto casuale, ma aiuta a capire il dna di questa nuova Fiat: il popolo delle utilitarie festeggiava in quel modo caotico la vittoria sulla civiltà dei suv…
La metamorfosi della grande industria italiana ce l’hanno raccontata in questi anni recenti, con intelligenza e capacità di osservazione. un conoscitore del gigante torinese come Giuseppe Berta o un grande perlustratore dei territori come Aldo Bonomi. Il primo ha colto i segni di una metamorfosi del capitalismo, capace finalmente di smarcarsi dall’economia garantita propria dei salotti buoni. Per decenni abbiamo convissuto con una Fiat collusa con la politica e le grandi istituzioni finanziarie; una Fiat che si concepiva industria di serie A e di interesse nazionale, dai cui destini dipendevano i destini dell’intero Paese. Prima la crisi e poi l’arrivo di un management nelle cui vene non scorreva più il sangue blu da aristocrazia imprenditoriale, hanno mutato completamente pelle, numeri e strategie dell’azienda. L’hanno normalizzata e snellita, l’hanno messa in rete con il territorio, rinunciando alla superiorità monarchica e fordista che ne aveva contraddistinto la storia. Come ha scritto Bonomi, «oggi a Nord-Ovest non c’è la Fiat, c’è una piattaforma produttiva Torino-Canavese nel quale c’è sì la Fiat ma insieme ad essa una rete di 1.200 imprese e 88mila addetti che formano un sistema… ovvero un territorio capace di entrare in una nuova fase di produzione di saperi legati alla piattaforma dell’auto»; capacità favorita, peraltro, dal pragmatismo di enti locali che hanno saputo accompagnare la riconversione.
La rinascita della Fiat, più che da un calcolo tecnicistico finanziario, è nata da un’alleanza di territorio, che ha posto le basi per giocare una sfida globale; e poi per spuntarla, grazie alla carta di una tecnologia più ecosostenibile di quella della concorrenza. Una bella parabola che non deve però far dimenticare le partite che sono rimaste aperte proprio sui territori. La prima è quella che riguarda le ricadute di una crisi dell’auto che non ha naturalmente risparmiato la Fiat: l’incertezza sul futuro della produzione, il destino dei tanti addetti tuttora in cassa integrazione nei vari stabilimenti italiani. La seconda è una sfida più culturale: questo modello positivo di innovazione e di successo imprenditoriale deve saper produrre gli antidoti a quei rancori sociali che ancora oggi avvelenano la quotidianità dei territori. Se così non accadesse, lo stesso modello Fiat ne uscirebbe penalizzato e indebolito: dal territorio è nata questa storia di successo; è salutare che al territorio ritorni, in forma di beneficio diffuso e di vita buona per tutti.
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